martedì 25 giugno 2013


LOVE AND EMOTION
La storia di Willy De Ville

Ho scritto su Willy DeVille meno di quanto avrei voluto. Ma l'ho amato molto. Un libro su di lui - "Love and Emotion" - una storia di Willy DeVille, di Mauro Zambellini - mi rende felice, soprattutto se arriva da chi su questo artista ha scritto tanto. Si tratta di un duplice beautiful reward.
Allora lascio suonare "Little girl", gemma del 1977 speziata di Spector e Springsteen, e mi calo nella lettura, sorprendendomi delle tante cose che non sapevo di quel giovanotto del Connecticut fuggito un giorno a New York per trovarsi una parte più affascinante di quella che Stamford gli avrebbe potuto risevare nel grande film della musica d'autore.
Perchè di un autore con la A maiuscola parla questo libro, anche se a uno sguardo superficiale, ciò che resta di Wiliam Paul Bersery Jr. - ora che c'è una data , il 6 agosto 2009, a chiudere le tende in velluto rosso di una vita difficile - è un profilo da eccentrico intrattenitore, magro come una sardina, tanto kitsch quanto elegante, ora sul cranio un pompadour vistoso ora uno scalpo da nativo americano.
Le canzoni. Parliamone.

Era andato – Willy - a cercarsi la vita, la vera vita, nella città dei Drifters che lui amava tanto, e lì è finito nell'appartamento di Doc Pomus, uno che di canzoni se ne intendeva avendone scritte per Elvis, Dion e i Seachers, a comporne delle altre, insieme al suo mito.
Questo testimonia il valore dei tanti hit minori (si, minori in quanto di pochi, "nostri", di chi lo ha amato) che potreste trovare incastonati oggi in una raccolta di questo autore se aveste la fortuna di trovarla in qualche negozio.
"Spanish Stroll" rimbomba come fosse il disco di un Lou Reed ubriaco di Fifties rock e mi chiedo, al pari dell'autore del libro, come mai non ci sia stata una ricompensa, nessun atto d'amore collettivo se non sporadiche cover (Boz Scaggs di recente, ammirevole con "Mixed up, shook up girl") verso questo talento. Una serata in un bel teatro newyorckese, non dico un album tributo.
Il fatto triste è anche che tutti quei "teatri" che l'hanno visto all'opera sono caduti come vasi di coccio in frantumi. Sparito il CBGB's, sostituito da una banca il Bottom Line, niente Ritz, un ricordo lontano il Savoy.
Quando ci entrai la prima volta, nel 1982, al Savoy, mi tremavano le gambe per l'emozione e per i postumi di una bronchite messa a tacere perchè in quell'inverno c'erano troppi concerti da vedere, troppe cose da imparare perchè io mi rivoltassi tra due coperte. De Ville era protetto dalla sua personale E Street Band, una gang dai cognomi greci (Margolis, il tastierista, che apre questo "Love and emotion" con parole di sincera emozione e rimpianto e porta forse il soprannome francese "perla") e italiani (Cortellezzi, sassofono dal suono caldo e poderoso come quello di un altro Mr.C).

Il cantante era compresso in un abito in gabardine di due taglie più piccolo, incedeva elegante e ogni tanto batteva i tacchi sul mio tavolo come fosse un tanguero e non un rocker. Aveva tutte le carte in regola per cantare le storie che scriveva, storie degenerate made in Alphabet City, la zona di New York dove le avenue sono la A la B, la C e la lingua degrada verso uno spagnolo pieno di vizi, il nuyorican.
Zambellini intitola "Stranger in town", come un album di Bob Seger, uno dei capitoli più densi di questo volume, quello che accende le luci sul momento in cui quella magnifica band e il suo leader, dopo tre alcum eccitanti che stanno alla loro carriera come il triple shot "Greetings/The Wild/Born to Run" sta al Boss, furono pronti per incrociarsi con il talento e le esperienze di tre uomini che non li trovi all'angolo di una strada, nemmeno a New York. Se era vero, come scrisse Robert Palmer, il critico del New York Times e di Rolling Stone, e come opportunamente queste pagine riportano alla memoria, che all'epoca De Ville "aveva le canzoni, aveva la voce e aveva la band", era altrettanto vero che gli mancava ancora un passo per aspirare al gradino più alto della scala rock della Big Apple, sia pure in coabitazione con altri adorabili ceffi. Gli serviva tutto ciò che portarono Ahmet Ertegun (la Atlantic, mica poco), Jack Nitzsche (un ritorno, era presente sui primi due dischi, sua la corresponsabilità insieme a Spector del Wall of Sound) e il tecnico del suono Thom Panunzio (gli inizi a Hit Factory con Lennon, poi "Easter" di Patti Smith e "Darkness" di Bruce) a un disco tosto e urbano come "Coup De Grace", che culla ancora oggi alcune tra le più significative composizioni di De Ville: "Teardrops Must fall", "Maybe tomorrow", proprio "Love and emotion".
E poi quella "You better move on" che dal nero Arthur Alexander era finita nel 1964 in mano ai bianchissimi Rolling Stones, secondo un processo di assimilazione del blues e del rhythm'n'blues che Willy conosceva essendo proprio la sua strada. Eppure a pagina 10 di questo libro si scopre, grazie alla penna e alla memoria di Margolis, che De Ville non aveva una grande opinione dei gruppi della British Invasion, addirittura "li odiava, dai Beatles ai Rolling Stones, dagli Yardbirds agli Who, odiava tutti tranne Van Morrison".

Potrei rivelarvi altro mentre "Help me make it (power of a woman's love)" mi riporta su il retrogusto di quegli anni in cui dalle auto in sosta nei vicoli di New York mi capitava spesso di ascoltare alcuni tra i miei artisti preferiti, e dunque, insieme a De Ville, Tom Petty e Graham Parker, il Boss e il suo protetto Gary U.S. Bonds, David Johansen e Garland Jeffreys, non tutti nati lì ma tutti insieme abbracciati nel forgiare un suono unico grazie al gusto delle loro eccezionali band.
Potrei saltare alla pagina 75, dove si racconta della fuga di Willy e della sua donna a New Orleans.
Potrei rispolverare insieme alle pagine che seguono altri dischi bellissimi e diversi arrivati negli anni Novanta da questo indimenticato ed eccentrico chansonnier con la Gibson al collo.
Potrei scivolare nella tristezza degli ultimi giorni di vita di questo fenomeno poco conosciuto, quando il suo palco era forzatamente il divano di casa e il repertorio ancora quello giusto (i Drifters).
Concluderò invece invitandovi a cercarlo e comprarlo questo libro, e a provvedere all'acquisto di alcuni dischi sulle cui tracce queste pagine vi metteranno inevitabilmente.
Se poi siete dei nostri, un ripasso non fa male.

E' bello incrociare un'emozione unica, un flusso costante di adorazione e rimpianto, nelle parole di chi ha steso con pazienza e amore questa storia (Zambellini) e in quelle di chi ha curato la prefazione (Kenny Margolis) e le postfazioni (Marco Denti e Blue Bottazzi).
Amore ed emozione non è un titolo speso a caso.
Those were the days.


LOVE AND EMOTION
La storia di Willy De Ville
di Mauro Zambellini (Pacini Editore)
160 pagine, 16,00 euro.

mercoledì 20 febbraio 2013

THE BALLAD OF BOBBY & JOHNNY



Il 20 febbraio del 1969 e del 1970, quarantaquattro e quarantatre anni fa (stento a credere sia passato tanto tempo), nascevano o venivano pubblicate due canzoni che il mio libro dei ricordi classifica come fondamentali. Che poi siano importantissime anche nella storia della musica pop è un dato che registro volentieri ma che faccio scivolare in seconda posizione. Personalmente, se non avessi mai incrociato quel vocione innaturale per Bob Dylan (era reduce da un incidente, mai aveva cantato così, mai lo avrebbe fatto dopo) e quel "crash boom bam" generato da Phil Spector per John Lennon sono certissimo che la mia vita avrebbe preso tutt'altra piega.

Le canzoni non sono tutte uguali.

Tutto dipende da come sono, è vero, ma anche da quando arrivano, da come ti colgono, da quanto sei ricettivo, dalla stagione e dagli odori che ti avvolgono in quel dato momento. Sono tutte sensazioni, abbracciate tra loro, che cammineranno insieme a te per sempre.
Se le canzoni sono quelle giuste.

 "Lay, Lady Lay", registrata il 20 febbraio del 1969 e "Instant Karma!", pubblicata il 20 febbraio del 1970, sono il giorno e la notte, la luna e il sole accecante, una tenda bianca che svolazza e la pece appiccicosa. Insieme contengono tutto. Potrei tenerne una in una mano e una nell'altra e avere la sensazione di essere attraversato e posseduto da tutta la musica di cui ho bisogno. Dylan era misteriosamente pacato e rassicurante in quella interpretazione, la voce di Lennon inquieta e urticante. Volendo estremizzare, ascoltandole si avverte in un caso la dolcezza del country e nell'altro la forza del punk. Non era country l'una e tantomeno era punk l'altra, ma riflettevano quegli stati d'animo lì. Ho solo messo un occhio sul calendario del rock, ho cliccato alla voce "passato", e questo è il risultato. Si sono aperte due finestre ed entrata tanta luce. Sono filtrate due voci importanti che il mondo l'hanno cambiato davvero.
Lo faccio spesso, questo cammino a ritroso, e non smetterò mai di farlo.

Guardarsi indietro aiuta ad andare avanti.

martedì 17 luglio 2012

BRUCE SPRINGSTEEN E PAUL McCARTNEY AD HYDE PARK
Il Boss, il Baronetto, Woody Guthrie e l'uomo che stacca la spina



Londra, 14 luglio 2012: avevo un appuntamento con la storia e non lo sapevo. Un momento: se ami il rock'n'roll e lui si e' preso il posto piu importante tra le passioni della tua vita e la musica avvolge la tua vita, attraversandola da capo a piedi, e anche il tuo lavoro ne dipende fortemente, se prendi un aereo per andare a incontrare per l'ennesima volta Bruce Springsteen, la sua Legendary E Street Band, con annessi gli E Street Horns e un manipolo di coristi che sarebbe da farci ogni sera oltre all'Apollo medley anche lo Stax medley, l'Atlantic medley, il Curtis Mayfield medley e il Sam Cooke medley, se accade questo sai che stai andando comunque a prenderti un altro mattoncino della storia in corso della musica popolare, quella che nella sua fase piu' recente - diciamo gli ultimi sessant'anni? - ha condizionato e colorato il mondo, entrando con forza nelle sue trasformazioni storiche, nelle sue evoluzioni, nelle sue rivoluzioni e pure in ogni avvisaglia di involuzione. E' accaduto col girare gracchiante dei primi 45 giri, e' proseguito nella piu' ovattata tecnicita' dei compact disc, continua oggi nell'era della musica liquida.

Le canzoni di Woody Guthrie avvisavano il mondo. Quelle dei Beatles facevano ballare e sognare il mondo. Quelle dei Creedence Clearwater Revival facevano riflettere il mondo nei giorni del Vietnam. Quelle di Bruce Springsteen hanno migliorato il mondo, infondendogli coraggio e oggi lo proteggono consolandolo. Quelle dei Rage Against the Machine e ora di Tom Morello urticano il mondo di chi ha il potere e armano chi il potere non ce l'ha, anzi: non ha niente.
Nel giorno del centenario della nascita di Woody Guthrie, colui che sulla sei corde acustica con cui suonava "This Land Is Your Land" e "Ain't Got No Home" aveva scritto "questo strumento ammazza i fascisti", John Fogerty, Tom Morello ("armiamo i senzatetto", e' pennellato sulla sua sei corde elettrica), Paul McCartney e Bruce Springsteen hanno camminato e cantato, hanno saltato e suonato sullo stesso palco. Bruce padrone di casa per contratto, ma il suo palco, si sa, e' la casa di tutti.


A casa mia, le mie figlie sono ancora troppo piccole per capire tutto questo ma mi auguro ne beneficino in qualche modo nella vita che le attende. Ignorano Woody Guthrie, scansano malamente Bruce Springsteen ma sono state "punte" dai Beatles. Pur avendo ogni musica a disposizione, non sono partite né da Okemah né da Asbury Park: sono partite da Liverpool, Inghilterra, e saltano, con un entusiasmo che mi mette i brividi, da "From Me To You" a "We Can Work It Out". Anche io ho acceso il motore dell'interesse verso la musica con i Beatles, piu' o meno negli stessi anni in cui acquistai, in audiocassetta, l'album "Mardi Gras" dei Creedence Clearwater Revival. Nel primo caso mi lanciai con assoluta coscienza sulle canzoni di "Abbey Road", che conoscevo battuta per battuta, nel secondo prevalse del tutto il caso: il negozio di dischi suonava "Someday never comes" e la commessa era proprio carina. Tanto che non le fu affatto difficile fare quella strana vendita a un bambino. Ancora oggi ci ripenso e mi sorprendo di come le cose siano andate e di come tutto sembri scritto.
Le mie figlie, dicevo. Hanno scoperto l'esistenza di Abbey Road a sette anni. Sono state più precoci di me, tanto che quando mesi fa le ho portate a vedere l'esterno degli studi dove registravano i Beatles si sono messe spontaneamente a scrivere qualcosa sul muro. Un primo impulso che può significare tutto o niente, ma se esiste un senso di gratitudine verso la musica loro l'hanno mostrato subito.


A me capita di essere grato quotidianamente ai tanti che hanno prodotto la musica che mi ha nutrito e sostenuto negli anni, offrendomi possibilità, scenari, incontri. Tornare ciclicamente dove si consuma quel rito che è il rock'n'roll, una condivisione che rasenta la spiritualità, mi fa stare bene, giustifica tante cose che ho fatto nella vita e anche le tante che mi sono battuto per non fare. Rinnova in me la sensazione di avere fatto le scelte giuste e di non aver smarrito, mai, quella parte di me che mi spingeva a dieci anni, abbastanza misteriosamente, a comprare un disco minore dei Creedence Clearwater Revival o and andarmene in giro inventando le parole di "Octopus's Garden" e "She Came In Through The Bathroom Window" anzichè cantare "Montagne verdi".

A questo appuntamento con la storia ci sono arrivato immaginando che Springsteen avrebbe potuto suonare con John Fogerty che apriva per lui. E che forse Tom Morello, ospite in più episodi di "Wrecking Ball" e autore anni fa di una incendiaria cover di "The Ghost Of Tom Joad" a capo dei Rage Against The Machine, avrebbe fatto un salto a trovarlo nel suo set dopo avere suonato sullo stesso palco un paio d'ore prima. Poteva succedere ed è successo. Quello che che mi ha sopraffatto, ancora una volta, è quel grande disegno che sembra esserci dietro a giornate come quella che ho vissuto ad Hyde Park. Stavo per perdere l'aereo per Londra il giorno prima. Con la lingua alle ginocchia sono arrivato a pietire di essere ammesso all'ultimo volo possibile, ormai chiuso, visto che quelli del giorno successivo in cui era disponibile un posto non mi avrebbero consentito di arrivare in tempo ad Hyde Park. L'Hard Rock Calling, il Festival da cui Springsteen ha tratto il suo dvd "London Calling", quest'anno prevedeva, come detto, che Bruce suonasse nel giorno del centenario della nascita di Woody Guthrie, e che Morello e Fogerty, autori in epoche diverse di canzoni "agitatrici" come lo sono da un pezzo quelle di Springsteen, fossero della partita. Piatto invitante per il sottoscritto e un bel modo di concludere queto tour prima di dedicarsi completamente a quelle figlie che va bene portarle ad Abbey Road, ma vogliono papà con loro al mare, a tempo pieno, senza troppe distrazioni o aerei da prendere. E questa per ora la loro unica grande richiesta. Altre ne verranno, ci sarà il tempo per vagliarle.




La famiglia - the ties that bind - un amore che naturalmente scavalca la musica. Ma l'ultima serata rock'n'roll di un'estate memorabile (meglio del 1978 quando vidi per la prima volta Dylan? indimenticabile quanto l'81 del primo Bruce? Superiore all'85 che nei miei ricordi -  ma non solo nei miei – significa San Siro, e non aggiungo altro?) si è rivelata un pozzo di emozioni, la somma di tante forze, il modo migliore per unire – come si fa sulla Settimana Enigmistica – i punti disseminati sul foglio della vita e scoprire che non ne è rimasto uno che sia solo, perduto in tutto quel bianco, non raggiunto dal tratto segnato con l'inchiostro.
Non fosse stato per un controllore un po' troppo zelante degli accordi presi tra l'organizzatore e la città di Londra, uno di cui oggi non vorrei vestire i panni perchè ha staccato la spina e chiuso i microfoni nel momento sbagliato, oltre a "The Promised Land" e a "Rockin' All Over The World" cantate da Springsteen e John Fogerty ("l'Hank Williams della nostra generazione", avvisa Bruce presentandolo prima del suo show, flannel shirt di ordinanza come il suo idolo di gioventù) e a "I Saw Her Standing There" e "Twist and Shout" urlate in extremis da una E Street Band estatica insieme a Paul McCartney, avremmo goduto anche della folk song "Goodnight Irene", rimasta strozzata in un microfono che rimandava la voce di Springsteen – fuori tempo massimo – solo sulle spie del palco e non verso la gente.


Cos'era successo? Semplicemente che mentre McCartney e Springsteen già si preparavano a un terzo pezzo da cantare insieme, qualcuno ha fatto capire a un Boss e a un Baronetto – mica due qualsiasi – che gli toccava "smammare", così l'omaggio a Woody Guthrie, sussurrato a cappella e davvero impercettibile a chi era tra il pubblico, è stato la strana conclusione di una serata già storica che avrebbe potuto annoverare nella tracklist anche – proviamo a buttarla lì – "Come Together" o "All You Need Is Love".


Ma è inutile fare i conti su quel che non è stato. Vale di più la sostanza di ciò che è stato. Con la partenza piano e voce di "Thunder Road" ("questa è come una lettera d'amore che vi porto anni dopo avere aperto così il mio primo concerto londinese, ero quasi un bimbo"), con la presenza di Fogerty (le cui canzoni spinsero Springsteen a ingegnarsi per evitare la chiamata dell'esercito americano ma ancora di più l'hanno reso l'autore di canzoni che è), e con la chiusura affidata, a sorpresa, a Paul McCartney, questa è stata una serata devastante per i sentimenti. A cosa serve rimasticare, a 48 ore di distanza, la questione della spina staccata?

Collego i punti di tutta questa storia e mi pare proprio di ritrovarvi un pezzo significativo e larghissimo della mia vita. Il volo che stava per sfuggirmi nascondeva tutto questo, che ora racconto felice come un bambino di dieci anni.


(le foto di Springsteen e McCartney sono di Giovanni Canitano - all rights reserved - Thanks Giò)

sabato 26 maggio 2012

LA PARTITA DEL CUORE - 23 maggio 2012

Ho visto questo stadio riempirsi di giovani e di striscioni bellissimi, più di quelli del calcio. Ho visto arrivare artisti, calciatori e magistrati coraggiosi. Ho visto una foto di Niccolò Carosio e una di Tanino Troja, non lontane dalla lapide che ricorda 5 operai morti nella (ri)costruzione del Barbera. Ho visto Palermo dire NO, ancora una volta, alla mafia. E 4 milioni di persone a casa, ad affiancare tante buone intenzioni. Mi porto indietro una grande stanchezza e un indelebile ricordo: 5 minuti prima dell'inizio della Partita del Cuore reggo un pallone con la mano sinistra e stringo una piccola mano in quella destra. Insieme percorriamo una metà del campo, poi lascio il piccolo giocatore - che porta il nome di un nonno che non ha conosciuto - a quello che deve fare. E' il calcio di inizio più potente che io abbia mai visto. Ciao Paolo Borsellino, 4 anni.

mercoledì 9 maggio 2012


ROUTE 61 LAVORA PER L'ORCHESTRACCIA E... CROSBY STILLS NASH & YOUNG.... STAY TUNED!!!

In occasione dei quarant'anni dall'uscita del primo disco di David Crosby e Graham Nash (erano gli inizi dell'aprile 1972, ora siamo a maggio), riproponiamo da una pagina di Rockol di fine marzo questo articolo/intervista di Alfredo Marziano sull'etichetta Route 61.
E' un modo per ricordare a chi segue le nostre attività che stiamo lavorando ai prossimi due progetti - il disco di esordio de L'Orchestraccia (gruppo romano che avete visto all'opera nello show di Serena Dandini) e un ampio tributo alla musica di Crosby Stills Nash & Young che vede protagonisti moltissimi songwriters e band della scena americana (ma anche inglesi, irlandesi e australiani). Siamo "piccoli" e i progetti ambiziosi richiedono tempo. Io, Joe, Mauro, Francesco e David ci stiamo lavorando. Get your kick on Route... 61.
E.L.
(grazie a Giampiero Di Carlo, Alfredo Marziano e Gianni Sibilla).

AMERICANI  A ROMA - di Alfredo Marziano (da Rockol del 23/03/2012)

In una immaginaria mappa geomusicale, la Route 61 di Ermanno Labianca non sarebbe localizzata a Roma ma negli States, all'intersezione tra la Route 66 di Bobby Troup e la Highway 61 di Bob Dylan. "Le mie passioni musicali - il rock'n'roll e il cantautorato americano, Dylan e Chuck Berry - stanno lì", conferma il deus ex machina della piccola etichetta capitolina, autore televisivo, giornalista musicale e massima autorità nazionale in materia di Bruce Springsteen (cui ha dedicato una fanzine ai tempi molto nota agli appassionati, Follow That Dream, e numerosi libri).

"Siccome il '61 è anche il mio anno di nascita", spiega Labianca, "per i miei cinquant'anni mi sono voluto regalare una piccola label che assecondasse le mie passioni". I semi risalgono al periodo, a metà tra gli Ottanta e i Novanta, in cui  lavorava per la Sony come promoter: "Sembravamo fatti l'uno per l'altra: in fondo era la casa discografica di Springsteen, di Dylan, di Leonard Cohen, in quegli anni anche di John Mellencamp. E poi di Francesco De Gregori e di Ivano Fossati...Il mio mondo, insomma, le cose che mi piacciono: in seguito mi sono accorto che la musica vista dall'interno di una multinazionale è ben altro, anche perché quelli sono stati gli ultimi anni felici della discografia. Comunque fu lì che, con un'etichetta che si chiamava Totem, produssi il mio primo tributo a Springsteen, 'For you'. Il secondo, una quindicina di anni dopo, ha inaugurato nel 2010 il catalogo della Route 61".

Una piccola etichetta il cui sottotitolo dice tutto: "Americana made in Italy". Ovvero blues, country, jazz, folk, e (soprattutto) canzone d'autore di matrice Usa declinati secondo il gusto e lo stile di artisti (italiani, europei, americani)  in sintonia con quel sentire e modo d'essere. "Oltre che un omaggio a Bruce", conferma Labianca, "quel disco era anche un tributo a una certa scena italiana che si rifà al genere roots e alla musica americana: Brando, Daniele Groff, Andrea Parodi, Cheap Wine, Max Larocca, gli stessi Modena City Ramblers. Siccome il progetto ha funzionato, ho deciso di proseguire. Ho dato una mano a un vecchio amico innamorato della West Coast, Francesco Lucarelli, aiutandolo a completare un disco che si fregia del contributo di musicisti statunitensi e della partecipazione straordinaria di Graham Nash. Poi, con gli amici/soci che nel frattempo mi avevano affiancato, ho cominciato a guardarmi intorno in cerca di artisti interessanti a cui proporre di lavorare insieme. Uno dei primi è stato Daniele Tenca, un bluesman milanese di cui avevo molto apprezzato il disco d'esordio e a cui abbiamo dato un seguito con un album live. Poi sono arrivati i Mardi Gras, band romana con vocalist irlandese che in 'Among the streams' ha ospitato Liam Ó Maonlai degli Hothouse Flowers, e  Donald & Jen MacNeill, padre e figlia scozzesi le cui canzoni rimandano al primo Greenwich Village e al folk di Donovan".
Sempre con Springsteen come faro guida (tre cover nel disco di Tenca, una in quello dei Mardi Gras) e un'attenzione particolare alla musica che scorre al di fuori delle correnti principali (anche se a farla sono musicisti che il mainstream lo hanno frequentato: come  Marco Conidi, di cui Route 61 ha pubblicato un'antologia di demo e outtakes anni '90 intitolata "Cinque anni"). Difficile ritagliarsi uno spazio, nel difficilissimo mercato degli anni Duemila? "Proposte di questo genere hanno un loro pubblico. Ovviamente limitato, di nicchia, ma stimolante. Un pubblico che legge Jam, il Buscadero, in parte anche il Mucchio. Appassionati veri, quelli che non si perdono un concerto dei Los Lobos o qualunque folksinger americano transiti per l'Italia. Noi siamo 'old school', abbiamo un contratto per il digitale con Believe Digital e iTunes ma restiamo affezionati al supporto fisico, alle copertine dei dischi. Stampiamo qualche migliaio di copie ma facciamo un bel prodotto destinato a chi lo sa apprezzare".

Ma intanto è arrivato il momento di quello che Labianca chiama il "terzo step": "L'apertura verso realtà italiane diverse ma pur sempre  in sintonia con i miei gusti. Il primo esempio è l'Orchestraccia, una fantastica banda di cantanti e attori che fa spettacolo e propone musica interessantissima . Cerco di replicare, in piccolo, quello che ho imparato sulla strada lavorando come giornalista e come discografico". In attesa del colpo grosso, un tributo a Crosby, Stills, Nash & Young in coproduzione con l'etichetta svedese Hemifran a cui hanno già aderito nomi "cult" della scena statunitense come Steve Wynn, Elliott Murphy, Willie Nile, Neal Casal, Chris Cacavas, Cindy Lee Berryhill, Michael McDermott, Sid Griffin e Jennifer Stills. "L'abbiamo concepito per rendere omaggio, quarant'anni dopo, a una stagione creativa incredibile. E' un progetto che  cresce di giorno in giorno: sarà un album doppio, lo pubblicheremo anche in vinile e speriamo di farlo uscire nel mese di giugno. Il condizionale è d'obbligo, quando si ha a che fare con 20/25 artisti dall'agenda piena di impegni e  disseminati per il mondo. Per registrare il contributo di Ó Maonlai ci siamo spinti noi a  Dublino, e sono orgoglioso di poter dire che  a fine mese inciderà per noi  Judy Collins, cui Stills dedicò come noto 'Suite: Judy blue eyes'.  Sarà il primo tributo a livello mondiale alla musica di C,S,N & Y. Ancora una volta, e come sempre, abbiamo voluto fare un disco che ci piacerebbe comprare".
 

lunedì 7 maggio 2012

GREAT SONGS FROM 1972 #1



HEART OF GOLD - Neil Young

I want to live,
I want to give
I've been a miner
for a heart of gold.
It's these expressions
I never give
That keep me searching
for a heart of gold
And I'm getting old.
Keeps me searching
for a heart of gold
And I'm getting old.

I've been to Hollywood
I've been to Redwood
I crossed the ocean
for a heart of gold
I've been in my mind,
it's such a fine line
That keeps me searching
for a heart of gold
And I'm getting old.
Keeps me searching
for a heart of gold
And I'm getting old.

Keep me searching
for a heart of gold
You keep me searching
for a heart of gold
And I'm getting old.
I've been a miner
for a heart of gold.


lunedì 23 aprile 2012

AMERICAN DREAM (S) – Miami & The Groovers e Cesare Carugi


Miami & The Groovers pubblicano Good Things.
Cesare Carugi arriva al primo disco con Here's To The Road.

Lorenzo "Miami" Semprini capeggia i suoi Groovers da un bel mucchio di anni e da tre dischi. Insieme, lui e i suoi sono cresciuti attraverso Dirty Roads ('05), Merry Go Round ('08) e un gran numero di concerti. Assetto e stile di vita da bar band, questo è un gruppo di appassionati del r'n'r americano riferibile ai soliti noti del midwest e della costa est d'oltreoceano. Inutile fare nomi o paragoni perchè certe vette sono inarrivabili, soprattutto dal punto di vista dell'interpretazione vocale (qui ancora migliorabile e comunque fa simpatia quel mix tra slang americani e accento romagnolo), ma la strada dei Groovers è fatta di impegno e spunti interessanti.
Perchè certi slanci di questi piccoli eroi del boardwalk riminese "tengono" davvero e a tratti emozionano, come quando la splendida Before Your Eyes va a sondare con una pedal steel anche i suoni della California per trovare una sua nicchia tra Bob Seger, i R.E.M. e i Del Fuegos, o quando il pianoforte di Alessio Raffaelli parte – accade in Walking All Alone e The Last Rock'n'Roll Band (la loro R.O.C.K in the U.S.A.) - in serpentine brucianti che rimandano al lavoro prezioso di Bittan nella E Street Band o di Benmont Tench per gli Heartbreakers. Eccellente è anche il lavoro delle due chitarre principali (Semprini + Beppe Ardito).
Miami & The Groovers si fanno fotografare in capannoni di periferia, come certi loro eroi, appendono a un muro il poster di Audrey Hepburn e le dedicano una canzone. Camminano come se fossero dei Brando. Ragazzi che fuori dalla loro finestra vorrebbero vedere il New Jersey. Che non è granchè attraente ma fa battere i loro cuori.
Tra gli ospiti, Alex Valle (dalla band di De Gregori), Heather Horton al violino, Antonio Gramentieri e Riccardo Maffoni.
http://www.miami-groovers.com/

Dopo l'esordio del 2009 (l'e.p. Open 24 hrs), il livornese Carugi ha continuato a coltivare il suo sogno americano, che qui si realizza con un disco che ha la dignità di opere simili concepite da piccoli e grandi songwriters d'oltreoceano, sempre sospesi tra la muscolarità di un rock alla Springsteen e un tratto sonoro più lieve che possiede la fragranza del folk e del country. Here's To The Road sorprende per la maturità della scrittura, che ricorda ma mai ricalca quella dei modelli ai quali questo ragazzo si ispira. Canzoni in un inglese ben scritto e cantato, arrangiamenti anche sofisticati che poggiano molto sulle chitarre acustiche ma che sanno trovare anche, come nella bella Dakota Lights & The Man Who Shot John Lennon, il respiro interessante di certe ballate al pianoforte che i grandi autori U.S.A. spesso si concedono. Il brano in questione è impreziosito dalla voce di Michael McDermott, da Chicago, cantautore molto amato da chi mastica la scena della costa est. Il disco ospita anche, in 32 Springs, il bresciano Riccardo Maffoni, stesse influenze di Carugi ma un percorso che finora, dal Festival di Sanremo al Premio Tenco, l'ha visto cantare prevalentemente in italiano (ma occhio al suo e.p.1977) e i bravi Max Larocca (Cumberland) e Daniele Tenca (lap steel in Every Rain Comes To Wash It All Clean).
www.cesarecarugi.com

C'è una piccola scena di innamorati dell'America dalle nostre parti, si sarà capito. E sono tutti bravi e appassionati. Iniziate da Semprini e Carugi, ne inconterete altri.

domenica 22 aprile 2012

ADDIO LEVON HELM, BENTORNATI COUNTING CROWS

Si viene e si va di umana commedia
che c'è chi la spiega e c'è chi vive e va
si viene e si va comunque
fischiando cantando - (Ligabue)


La morte di Levon Helm - batterista, cantante, mandolinista della Band, uomo che conosceva i mille rivoli dell'American Music, attore - lascia un vuoto enorme. Aveva una tra le più belle voci di tutti i tempi. E poi suonava dietro ai tamburi e ai piatti con tutta l'anima, basta rivedere come teneva il tempo in Mystery Train nel film The Last Waltz diretto da Martin Scorsese. Era quello che ha rimesso e tenuto insieme il gruppo oltre ogni difficoltà, morte o abbandono. Resta ormai così poco di quella meravigliosa storia che è stata la storia di The Band. Quasi nulla. Robbie Robertson, l'autore principale, è sembrato negli ultimi vent'anni molto distante da quanto aveva fatto come leader del gruppo. Richard Manuel morto sucida nel 1986, Richard Danko ucciso dalle droghe e dal suo cuore nel 1999. Garth Hudson aveva lo scorso anno messo insieme una celebrazione tutta canadese del suono del gruppo ma non è figura più defilata, benchè sempre presente nelle attività post-Robertson, compresi i tre dischi pubblicati negli anni Novanta.

Resta poco di The Band ed è così triste perchè quella formazione, con le sue voci, tutte incredibilmente belle, è stata una colonna della musica americana. Quei ragazzi canadesi erano stati – col nome The Hawks - la prima band di Bob Dylan e con lui erano tornati negli anni Settanta per farsi ricordare e riascoltare oggi da quell'inossidabile live che è Before The Flood (vedi foto, da quel tour, con Dylan e Helm che giocano a ping pong). Senza parlare di tutti quei recuperi di cose registrate e rimaste lì che si intitola The Basement Tapes. I ragazzi hanno pubblicato album meravigliosi e scritto canzoni che resteranno eterne: It Makes No Difference, The Weight, Ophelia, Twilight. Quante.


Ricorderò per sempre una sera di quasi vent'anni fa allo Stone Pony di Asbury Park: la mattina avevo comprato a New York la biografia della Band – This Wheel's On Fire - scritta da Helm, così gliela porsi per fargliela autografare, sognavo di incontrarlo da quando avevo acquistato il triplo album The Last Waltz che ero ancora minorenne. Lui e Rick Danko stavano salendo sul tour bus dopo lo show, sudati e felici. Con loro entrava anche Warren Zevon, che aveva aperto la serata. Mi misi a parlare e mi dimenticai anche di chiedergli la firma. Che importava? Avrò sentito le loro canzoni, della Band e di Zevon – Un On Cripple Creek, Acadian Driftwood, The Shape I'm In, The Night They Drove Old Dixie Down, e Mohammed's Radio, Excitable Boy, Werevolwes of London, e altre - un milione di volte.


Mi bastava aver fatto qualche foto durante lo show (una, che ritrae Zevon sul palco con Rick Danko mi è particolarmente cara - ed è qui sopra).
Helm, Danko, Zevon: se ne sono andati tutti e tre. Tre grandissimi artisti.
Ho trovato queste bellissime parole del chitarrista Larry Campbell, collaboratore e grande amico di Helm. E le incollo qui. Tutto vero. Tutto giusto. Se non conoscete la musica di questi artisti cercatela.

“The one guy who can do any form of honest American music with authority. He can do Southern gospel like he grew up in a chuch, blues like he was born on the Delta, rock 'n' roll like he was there at the beginning. He's the Delta of American music".

I Counting Crows sono la nuova Band, si è sempre detto. Nel senso che stavano prendendo il posto che nei Settanta era stato del gruppo composto da Robertson, Helm, Danko, Manuel e Hudson. The Band/Counting Crows: stesso calore, stessa espressività, stessa abilità nel coprire ogni zona del rettangolo di gioco della musica americana. Formazioni "a tutto campo" così ne nascono una ogni cinquant'anni. E' un segno del destino che io mi sia trovato a scrivere del nuovo album dei Counting Crows per un nuovo mensile (lascio l'annuncio ufficiale all'editore) sull'onda della scomparsa del grande Levon Helm, proprio il giorno della brutta notizia, proprio nelle ore in cui tutti venivano a sapere della fine di quell'uomo sensibile e forte che ha tenuto in vita il mito The Band anche se da anni c'era un tumore alla gola a fiaccarlo.


Salutiamo il nuovo album (tutte cover tranne Four White Stallions) dei Counting Crows – Underwater Sunshine (lo pubblica Cooking Vynil/Edel) - in cui il gruppo di Adam Duritz canta Dylan (You Ain't Goin' Nowhere, e la coincidenza è bellissima), i Faces (britannici molto americani) e Gram Parsons (Return Of The Grievous Angel, con un mandolino alla Levon Helm). Se i capolavori di questa formazione restano l'esordio August & Everything After e Hard Candy, questo è un disco assai opportuno che esce nel mese in cui si mette la parola fine alla lunga storia di gruppo di Robertson e compagni.

domenica 23 ottobre 2011

MARCO SIMONCELLI 1987-2011


Un mese fa, esatto, il 23 settembre, ero con Marco Simoncelli al Quirinale. Era a due sedie da Federica Pellegrini. Miti giovani del nostro sport. Giorni prima avevo pensato a lui, campione amato dai giovanissimi, un po' rockstar un po' cartone animato, convinto che con i suoi ventiquattro anni così poco allineati e i suoi riccioli sarebbe piaciuto a duemila studenti seduti in platea. Lui aveva accettato di partecipare alla trasmissione "Tutti a scuola", a casa del Presidente. Lei era li, rispettosa ed emozionata, altro che l'insensibile che qualcuno ha dipinto dopo il suo no (un "no" tecnico, motivato) a portare la bandiera italiana all'opening delle prossime olimpiadi. Se la burocrazia non ci avesse bloccati, Marco avrebbe anche cavalcato la moto dei corazzieri per entrare nel cortile d'onore. Vestito di tutto punto ma indossando il suo casco, quel casco che oggi è volato via insieme alla sua giovane vita. Per me è una domenica di grande tristezza.
Addio James Dean su due ruote.
"Too fast to live, too young to die, bye bye".

venerdì 21 ottobre 2011

BRUCETELLERS - Un libro di emozioni e solidarietà nel segno di Bruce Springsteen. Una serata per ricordare, aiutare, cantare. Pistoia, 22 ottobre.


Hanno amato e amano Bruce Springsteen visceralmente, hanno scritto di lui, parlato di lui, sognato di incontrarlo, e alla fine, ognuno con il suo ruolo, le sue aspirazioni, il suo momento, la sua opportunità, lo hanno avvicinato, dando forma a quel sogno. Chi da sotto a un palco, a goderne semplicemente le gesta di fratello maggiore e fortunato che può cantare per gli altri, chi nella hall di un albergo prima o dopo un concerto, chi in un camerino, in un backstage o per strada, in cerca di un approccio discreto perchè l'uomo lo merita. Sono giornalisti, scrittori, musicisti, disegnatori, fotografi, liutai, grafologi, collezionisti, professionisti della musica e semplici fan, uomini e donne che vivono una passione matura, non offuscata da slanci isterici nè da feticismo, ma cullata nella consapevolezza di avere indirizzato in modo corretto le proprie attenzioni, senza lasciarsi stravolgere la vita bensì adattandola alle circostanze e all'esempio che Springsteen offre costantemente con le sue opere e i suoi gesti.

Ecco allora tutti pronti a raccogliere i propri pensieri in Brucetellers (240 pagine, Edizioni Nuove Esperienze, disponibile da domani, 22 ottobre), a rovistare nell'armadio dei ricordi, a recuperare cose dette agli amici o scritte già su qualche libro, opinioni pubbliche e private, frammenti di vita che non si possono dimenticare - no, mai – per restituire in qualche modo il bene che si è ricevuto, per disobbligarsi nei confronti di quel gigante di umanità che tanta bellezza ha contribuito a crearla e per non lasciare sotto silenzio la storia piccola ma non meno importante di chi quella bellezza ha potuto assaporala per poco tempo, ma ne è stato e ne rimmarrà parte.

Questo esercito di innamorati pazzi della musica e della vita ha risposto alla chiamata per accendere una luce davanti al viso di Giacomo Melani – uno di loro, uno di noi – che a 30 anni o poco più ha lasciato la transenna sotto al palco, le corse per il posto migliore, l'emozione da cogliere in un nuovo disco, ha lasciato gli amici, i bambini a cui insegnare il basket, ha lasciato quella palla rossiccia così americana, americana come le canzoni che gli scaldavano il cuore ogni giorno della sua vita. Ha lasciato la vita perchè era scritto così ma la vita non ha lasciato lui.
Questa la storia dietro a un volume che parla di tutti, anche di Giacomo, un libro di frammenti e storie dalla punteggiatura varia, dove non serve mettere in fila i nomi in ordine alfabetico o secondo notorietà, dove la visione è una sola, e dove le parole sono state stese e spese per riscaldare ancora una volta il motore e tenere tutti compatti in attesa di un nuovo Springsteen, ma soprattutto per dare un piccolo aiuto all'ospedale pediatrico Meyer di Firenze (Giacomo era del pistoiese, in quelle zone un tragico incidente stradale lo ha strappato nel 2010 al bello che Brucetellers ha l'ambizione di raccontare).

Le firme sono tante, tutti – recitano le note di presentazione di Brucetellers - "hanno accettato di prestare gratuitamente la loro opera abbracciando lo spirito benefico e il comune senso di appartenenza a quella patria trasversale di seguaci del Jersey Devil, artista sensibile e altruista".
Dopo le parole scritte, domani sera, 22 ottobre, al Piccolo Teatro Bolognini di Pistoia sarà tempo per un abbraccio e per le canzoni che hanno nutrito tutti. Alcuni saluteranno da lontano ma vicini con il pensiero, altri leggeranno, qualcuno suonerà. Per non dimenticare nessuno – Giacomo, Danny, Clarence e tanti altri – per alzare un bicchiere "for the comrade we've lost", per ripetersi che quel sogno – ogni sogno – va inseguito, ovunque possa portarti.
E per convincersi, con un sorriso, che alla fine non è importante quanto vivi ma come vivi.


Per info sui contenuti del libro e sulla serata
http://brucetellers.wordpress.com/

giovedì 13 ottobre 2011

ROUTE 61 MUSIC - le pubblicazioni di ottobre/novembre 2011: Daniele Tenca, Donald & Jen MacNeill with Lowlands, Mardi Gras, Marco Conidi. All aboard!


For You 2, l'omaggio "roots" a Bruce Springsteen pubblicato il 7 settembre del 2010, ha fatto da apripista. E' poi subito arrivato l'esordio di Francesco Lucarelli, ospite Graham Nash.
In questi giorni, mentre leggete, stanno arrivando sul mercato (fisico e digitale, controllate I-Tunes)altri tre prodotti e tre artisti: un bluesman italiano, Daniele Tenca, che canta di classe operaia come fosse B.B.King dopo due ascolti di Born To Run; il folksinger scozzese Donald MacNeill che insieme alla figlia Jen e ai nostri Lowlands ha registrato un disco di una bellezza e di una semplicità stordenti, che ribaltano il nostro calendario, come se fossimo in giro per il Greenwich Village negli anni Sessanta indossando un I-Pod; infine i Mardi Gras, muscoli italiani e voce irlandese, il cui esordio ospita l'Hothouse Flowers Liam O'Maonlai e canzoni sorprendentemente mature, frutto di un lavoro di anni sull'asse Roma-Dublino.

Ma "Americana Made in Italy", questo il nostro timbro (che evidentemente ha confini larghi e larghe vedute, in segno di un amore incrollabile per la musica contaminata), sta per viaggiare anche sulle strade del songwriting italiano in aria di chitarre americane. A fine ottobre arrivano anche Marco Conidi e "Cinque anni", un disco che intende fare un passo in avanti guardandosi indietro, one step up two steps back. Canzoni piene di voglia di andare avanti, ancora, senza dimenticare quel che è stato. Una sopresa assoluta per i tanti fan del cantautore romano, che cantò Springsteen e i Soul Asylum ma che ha anche un ampio e bellissimo repertorio originale di canzoni per gente "ai margini", anche lui attratto da quella darkness on the edge of town che è linfa per molti autori.

In catalogo anche il primo For You (1995) e gli album di Joe Slomp pieni di cover in chiave west coast, soul e jazz.

Route 61, un'etichetta che è anche un sito, oltre a dischi proporrà libri, gli arretrati di Follow That Dream e molto altro.

All aboard, se avete benzina. La Route 61 è aperta!


www.route61music.com

sabato 2 aprile 2011

JESSE MALIN - Profumo di Bowery - St.Marks Social in Italia fino al 9 aprile


Jesse Malin sta attraversando l'Italia, con la forza dei suoi 43 anni, troppi per quello che gli vediamo fare sul palco. Diciamo che la sua età è ferma a 34, gli inverni che aveva accumulato nei giorni in cui registrava il suo primo disco da solista, "The fine art of self distruction" (uscito nel 2003). A 34 anni Dylan pubblicava "Blood on the tracks", Springsteen si era da poco messo alle spalle "Nebraska", Neil Young scriveva "Rust never sleeps", Tom Petty portava in giro le canzoni rabbiose di "Long after dark" e John Mellencamp, che l'Italia vedrà finalmente presto (a luglio), faceva girare sui nostri piatti "Scarecrow".
Jesse Malin è tosto, intenso, clamorosamente convincente come quei cinque campioni nei loro giorni migliori.
Lo è perchè è energico, credibile, pienamente nei suoi panni come se stesse ancora promuovendo il primo disco, e invece se ne contano 7/8 tra full album e qualche mini. In meno di dieci anni, da quando ha messo a riposare i D-Generation, cellula quasi punk fuorisucita dalle strade intorno alla Bowery di New York (ma da quella band è tornato con lui l'eccellente chitarrista Ted Hutt), Malin non ha spostato di un millimetro la sua direzione e la velocità di crociera è quella di allora, se non superiore. Sentiamo che non diventerà una big star come quelle citate sopra, suoi mentori e in qualche caso amici (Bruce lo avveva affiancato in "Broken Radio" qualche anno fa), ma è confortante sapere che c'è ed è così, perchè concerti come il suo sono merce rara.


Ho pensato tutte queste cose ieri sera, al Big Mama di Roma (prima di sette tappe italiane), mentre quelle pareti registravano un numero di decibel al quale non sono abituate, e il pubblico si coccolava quell'ometto nervoso e romantico che si porta addosso, indelebile, l'anima della sua città e il tanto rock che questa ha prodotto, soprattutto a cavallo tra la metà degli anni Settanta e quella del decennio successivo, dieci lunghe stagioni in cui Manhattan aveva i più bei club (Ritz, Bottom Line, Lone Star Cafè - tutti spariti) e i più bei negozi di dischi del mondo.

Jesse sa, sente - stretto nella sua giacca nera e nella sua t-shirt della Motor City - di essere a suo modo un sopravvissuto, la corteccia caduta di una quercia che non esiste più, polverizzata dall'11 settembre, dalla recessione di qualche anno dopo e dalla galoppante fantasia di chi un passo dopo l'altro sta ammazzando della musica tutti i supporti fisici. Non arriva a caso l'invito a frequentare i pochi negozi indipendenti di dischi rimasti nel Greenwich Village (e nei Village di altri angoli di mondo), perchè "lì si compra musica che non pensereste di comprare - dice Malin - la si scopre, la si annusa, si conoscono persone, con cui poi può anche capitare di farci l'amore, capito?, tutto quello che non accade davanti al computer e a un negozio virtuale". Parole dal palco che suonano uguali a quelle scritte dentro "On Your Sleeve", l'album di cover del 2008, che "non mi ha fatto guadagnare nulla perchè – come dice il mio manager – se non scrivi le tue canzoni, la busta con l'assegno che arriva agli autori ogni tre mesi è leggera, maledettamente leggera", ma che "mi ha fatto ricevere in segreteria le chiamate più inaspettate, dai miei amici della high school che ora vivono chissà dove, e da qualche vecchia fiamma, perchè ho cantato le 'loro' canzoni, quelle che avevano comprato in quel genere di negozi, con tutto quel che ne conseguiva quando ci entravano".


Nel suo primo show italiano di questo "tour de italia", Malin non ha dimenticato le cover dei brani che lo hanno formato (stre-pi-to-sa la conclusiva "Instant Karma", del primo Lennon post Beatles) ma ha soprattutto rovesciato con una buona dose di violenza sul pubblico le canzoni dei suoi dischi, da "Wendy" a "Hotel Columbia", da "Cigarettes & violets" alle ultime - racchiuse in "Love it to life" - come "Burning the Bowery", "All the way from Moscow" e "Disco Ghetto".


Band perfettamente calata nel suono i St.Marks Social, e dall'abbigliamento giusto (un possibile ponte tra i Knack, i Cars e i Bad Brains). Chitarre Gibson pompate a dovere dai Marshall, sprazzi di new wave e docili ballate col pianoforte, una stella al centro del palco che vorresti portartela a casa tanto è brava a farti riassaporare una pietanza che pare sparita. E' una bella fortuna avere l'occhio per accorgersi che qualcosa di forte sta tornando a succedere, e non rimanere a casa a recriminare. Un vecchio-nuovo vento spira grazie a giovanotti che da ogni latitudine (Malin - la stella - poi i Gaslight Anthem, gli Hold Steady, Mumford & Sons, i Decemberist, e ci metto anche gli inglesi Beady Eye di Liam Gallagher) ci stanno portando un nuovo grunge, che col grunge poco ha a che fare ma che parla la stessa lingua, ha la stessa indomabile forza rigenerante.
Io mi sono sentito un trentaquattrenne di fronte alle canzoni e al sudore di Jesse Malin, e non c'è denaro che possa comprare questa sensazione.

Se siete a un tiro di schioppo da Dozza, vicino Bologna, catapultatevi immediatamente al Teatro Comunale. Per tutti gli altri, sempre che il messaggio sia giunto chiaro e abbia fatto centro, restano 5 date, che non sono poche, fino al 9 aprile: Casalgrande, Cantù, Trieste, Valgardena, Chiari.

Rocking the Bowery. Si, si può anche qui. Basta esserci. Perchè le emozioni raccolte di persona restano più di un volonteroso racconto.


Grazie a Filippo De Orchi per le foto.

sabato 1 gennaio 2011

(MY 33) BEST IN MUSIC - 2010



33 perchè appartengo alla generazione del vinile e certe emozioni non si scordano. Sono 33 i miei "best of 2010": canzoni, collaborazioni, album, ristampe.
33 ma potevano essere 66, o 99. Oppure 11. Dipende dall'attimo in cui ci penso.
E naturalmente è tutto temporaneo, perchè domani potrebbero essercene altri 33 nella mia testa. Capita a me, immagino valga un pò per tutti.
Ma questi ho scritto e questi resteranno. E se mi pentirò di qualche infatuazione passeggera non lo dirò a nessuno. Qui hanno tutti pari dignità: Il Beach Boy che scherza (scherza?) col catalogo di Gershwin, Kid Rock che si sente un pò Bob Seger, i Gaslight Anthem (da New Brunswick, NJ) che si sentono dei piccoli Boss, Eminem che mi cattura grazie a Megan Fox (nel video) ma poi scopro che il pezzo gira, John Legend che rappresenta quel nuovo (nuovo?) che avanza guardandosi indietro.
Ci ho infilato l'energia quasi punk di certe cose, il country e il soul di altre, sprazzi di pop e sussulti hip hop, l'Italia che canta l'italiano e quella che è più a suo agio con la lingua inglese. Poi ho leccato la busta. Non si torna indietro.
Prima dell'elenco, due divagazioni extra "dischi": il film sul giovane Lennon (qui rappresentato da Maggie May nella zona "songs") è un gioiello, la biografia di Keith Richards una necessità.
A me questa musica ha dato molto piacere tra qualche dispiacere.
Voltiamo pagina. 2011, che ci porterai?

My 33 BEST OF 2010 in Music

Albums
Brian Wilson - Reimagines Gershwin
Gaslight Anthem - American Slang
Jesse Malin & the St.Marks Social – Love it to life
Paul Weller – Wake up the nation
Ryan Bingham – Junky star
Johnny Cash – America VI: Ain't no grave

Songs
Ray La Montagne – New York City's killing me
Bruno Mars – Just the way you are (no, not the Billy Joel song)
The Nowhere Boys – Maggie May (Nowhere Boys – OST)
Train – Hey soul sister
Pink – I don't believe you
Josh Ritter – The curse

Collaborations
John Legend and Roots, featuring Melanie Fiona– Wake up everybody
Elton John / Leon Russell – The hands of angels
Kid Rock / Sheryl Crow (with Bob Seger) – Collide
Ray Davies / Bruce Springsteen – Better things
Mavis Staples / Jeff Tweedy – Wrote a song for everyone
Eminem Feat Rihanna - Love the Way You Lie

Ristampe/Reissues/Box set/Live albums
Bruce Springsteen – The Promise: Darkness on the edge of town Story
John Lennon / Yoko Ono – Double Fantasy: Stripped down
Wings – Band on the run: special edition
Rolling Stones – Exile on Main St. reissue
The Stooges – Have some fun: Live at Uragano's
Otis Redding – Live on the Sunset Strip

Italy (canzoni/songs)
Negramaro / Elisa – Basta così
Lowlands – Life's beautiful lies
Malika Ayane / Cesare Cremonini – Believe in love
Pierdavide Carone – Hey baby
Anna Oxa – Tutto l'amore intorno
Paolo Belli / Karima – Vorrei incontrarti fra cent'anni (live@Telethon)

Fuori categoria 1 (conflict of interest)
Francesco Lucarelli (with Graham Nash) – Mr. Sunshine
Daniele Groff – Radio Nowhere (For You 2: a tribute to Bruce Springsteen)

Fuori categoria 2 (di un altro pianeta)
Peter Gabriel - Scratch my back

lunedì 4 ottobre 2010

STEVE WINWOOD A ROMA - Luci e ombre di Mister Traffic


Steve Winwood è un signore che porta molto bene i suoi anni. Per questo sarò semplicemente severo ed esigente con lui e non compassionevole. Steve Winwood è quello che nel 1965, a soli 17 anni, ha composto "Gimme Some Lovin'". Per questo è una leggenda.

Dunque Steve Winwood è una leggenda che non va trattata come una leggenda sfiorita ma come un musicista integro e ancora capace di intendere e di volere, condizione che alcuni suoi coetanei reduci e consumati da quei tempi lì (tempi di un rock primitivo e molto dispendioso per chi lo praticava) non possono più permettersi.

Avevo visto Winwood, la leggenda dello Spencer Davis Group, ma anche dei Traffic e dei Blind Faith (praticamente tre leggende in un uomo solo), pochi mesi fa ad Istanbul. Era la mia prima volta e fino a oggi anche la mia unica davanti a questo genio dell'organo Hammond e non solo. Divideva tour e palco con Eric Clapton, ma quando dividi tour e palco con Eric Clapton per bravo che tu sia finisci per fare l'ospite. I due infatti alternavano le proprie canzoni, spalleggiati dalla band di Clapton, con un rapporto di uno a quattro in favore di Mister Manolenta. Così di spazio per Winwood non ve n'era granchè. Ero pronto a godermi una serata tutta sua, a cinque minuti di Vespa da casa mia, senza arrivare fino al Bosforo questa volta. Ho solo dovuto saltare il Tevere all'altezza di Corso Francia.

Qualcosa però non ha funzionato completamente. Ottimo l'avvio, adeguata la band, almeno per i pezzi svolti con attenzione nella parte alta della scaletta (bella Can't Find My Way Home, manco a dirlo, bravo all'organo e alla chitarra la nostra leggenda, che è cantante sopraffino e anche questo si sa). Poi ha prevalso un imprevisto, inadeguato, invadente tessuto ritmico latino che mi ha fatto pensare a tratti più a Santana che al classic rock. Passi che la band mancava di un basso (assenza grave), passi che di "John Barleycorn Must Die" si vendeva solo la t-shirt, passi che quella grandeur un po' pop da alta classifica anni Ottanta era impraticabile, passi che di conseguenza, di "Arc of A Diver", "While You See A Chance", "Valerie" e "Roll With It", figlie di un pop cher non si fa più, nemmeno l'ombra, ma il trattamento vagamente cubano riservato sul finire a "Higher Love" quello no, anche perchè ha chiuso lo show veramente in calando.
Sarebbe servita un'altra tastiera a supplire all'assenza di uno straccio di sezione fiati (bravo ma un po' perso e solo il sassofonista) e un paio di coriste avrebbero riscaldato la scena e alcune canzoni.


I brividi procuratici da "Dear Mister Fantasy" (con Carlo Massarini una fila dietro di me a scattare foto e a rivedere il film della sua memoria) sono svaniti quando è arrivata una "Gimme Some Lovin'" un po' stiracchiata e priva di quel calore che anche un'oscura cover band dei Blues Brothers sa dargli in qualche birreria del Tuscolano (quartiere di Roma collocato a sudest, per chi non sapesse).
A tutto ciò aggiungi che gli Auditorium progettati da Renzo Piano non sono la migliore alcova per un amplesso a base di rock e soul ma delle linde e un po' freddine sale più adatte alle orchestre sinfoniche che agli amplificatori Fender e Marshall.

Ora mi metto "Glad", mi vesto di bianco e per andare a dormire percorro il corridoio come faceva Mister Fantasy, quello della tivù.
Lo faccio per non pensare a una serata che ha funzionato solo a metà. Ma so che da domani tornerò ad amare Steve Winwood - la leggenda - come ho sempre fatto, dimenticandomi il parsimonioso artista incontrato questa sera.

(le foto sono di Filippo De Orchi)

UPSIDE DOWN - il mondo (del calcio) si è rivoltato



Sarà che la palla è rotonda (e, nel caso della Serie A di quest'anno, anche un po' bruttina: il modello è Nike T90 Tracer, se proprio volete farvi del male). Sarà che ormai tutto gira un po' all'incontrario. Sarà quel che sarà (data l'ora e l'incazzatura, cito la bassa filosofia da Festival di Sanremo). Sarà che a noi della Roma ultimamente l'inizio del campionato non è che sia "na passeggiata de salute". Insomma, sarà forse per qualche strana congiuntura astrale, ma a noi di cuore giallorosso tocca vedere l'aquila della Lazio, una vera aquila, dicono allenata da un portoghese (un allenatore vero e serio, niente a che vedere con i "portoghesi" che non pagano il biglietto allo stadio), volare alta nel cielo dell'Olimpico. Più o meno quello che fa la Lazio di bianco e azzurro vestita, quella dei calciatori, nella classifica della Serie A dopo cinque giornate.
Ora, ditemi voi. Passi per la Lazio prima, che si sfoghi ora, tanto non c'è trippa per... aquile, ma Chievo, Brescia, Bari e Catania che ringhiano dietro le prime quattro? E' mai possibile?
Il tutto mentre Sampdoria, Parma, Fiorentina e Roma stanno là sotto a fare sentire meno sola l'Udinese che chiude la fila con 4 punti.
Il mondo del calcio si è proprio rivoltato (per ora).

domenica 4 luglio 2010

BALLANDO COI LUPI - I Los Lobos a Roma - Cavea dell'Auditorium 3 luglio 2010


Se con quelle facce lì e con quell'appeal da camerieri dell'Hilton di Città del Messico facessero musica dalle nostre parti, i Los Lobos troverebbero qualche ingaggio solo tra matrimoni in Riviera e qualche festa di paese. Un contratto con una major? Difficile, se non impossibile. Eppure, partiti da lontano, 1973, anno dal quale – recita la t-shirt venduta dal merchandising – offrono un "quality service", i "lupi" sono la band più trasversale e duttile del rock americano. Lo sono per la versatilità dei componenti, gli stessi da sempre, gente che da quando ha esordito su album (dopo anni da vera "wedding band" in quel di east Los Angeles, il primo importante contratto discografico è arrivato a metà anni Ottanta) non ha scelto di stare da una parte ma "ovunque". E lo sono perchè maneggiano chitarroni e hapanguere, Fender Telecaster e fisarmoniche, Gibson Les Paul da rock duro e, se serve, anche il bajo sexto, una chitarra messicana a dodici corde. Alcuni sono strumenti da musica nortena, quella che dall'alto Messico va a mescolarsi con i suoni del South Texas, per formare il "conjunto", impasto che si nutre tanto di folk nordamericano quanto di saltellanti ritmi latini, altri vengono dalla scuola più conosciuta del rock'n'roll e del blues. Tutto porta a un repertorio che può spingersi dalle balere di Tijuana fino agli angoli più lontani di qualche stato amerucano del nord, dove nei bar sulle statali ancora si suonano, e sempre si suoneranno, i pezzi di Hendrix, degli Allman Brothers, di Richie Valens e di Marvin Gaye.


Basta questo a dire che razza di caleidoscopio portano in giro Hidalgo, Rosas, Perez, Lozano e Berlin, e quanti colori sono capaci di spennellare sulle assi nere di un palco. Quello della Cavea, l'accogliente conchiglia incastrata tra i tre enormi gusci disegnati da Renzo Piano per il Parco della Musica a Roma, può essere un palco difficile, difficilissimo se lo si raggiunge nelle condizioni precarie in cui era la band nei primi venti minuti del set. Strumenti e amplificatori presi in prestito a sostituire quelli ancora in viaggio dall'aeroporto al backstage, cavi inseriti all'ultimo minuto, microfoni sistemati alla meglio, livelli sonori da denuncia, che portavano subito qualcuno ad attraversare la platea per cercarsi un posto da dove non si sentisse solo la chitarra ritmica a tutto volume: questo lo scenario che accompagnava le prime tre canzoni. Poi meglio, con gli strumenti - "our instruments", a lungo invocati soprattutto da Cesar Rosas e David Hidalgo, i due chitarristi e vocalist del gruppo - che arrivavano uno dopo l'altro e uno dopo l'altro conquistavano il palco in una inedita dinamica che diventava parte dello show.

Un po' di mestiere, un repertorio che inizialmente ha puntato molto sull'orecchiabilità dei dischi del periodo 84/90, l'amore compiacente di un pubblico non umerossimo ma tenace e fedele, e via, la macchina sonora dei Lobos, partita a ridosso della corsia di emergenza, ha trovato gas e una linea di mezzeria da ingoiare brano dopo brano, in grande velocità, sempre a cavallo tra le origini (il folklore del Barrio) e la via maestra del rock di casa America, dove a far friggere le due, talvolta tre chitarre erano i più bei pezzi tirati (How Will The Wolf Survive) o quei momenti blues (Just A Man) in cui Hidalgo si inventa una voce che si colloca a metà strada tra Winwood e Clapton.


Non si spaventano i cinque losangeleni (più uno, saltuariamente batterista aggiunto quando Perez imbraccia la terza chitarra) ad indugiare sulle parentesi un po' sperimentali della loro carriera (Kiko And The Lavender Moon), sventolano fieri le loro radici (Volver Volver) convinti che siano un po' anche le nostre, ammiccano un po' (l'accenno di Volare che il pubblico sembra ignorare), cavalcano gli hit conclamati (La Bamba) ma non dimenticano le pieghe più ostiche eppure apprezzatissime del loro lungo percorso discografico (La Pistola y el Corazon, dall'album acustico tutto in spagnolo). Fanno tutto questo con una sicurezza e una destrezza che affascinano e lasciano senza parole, lo fanno continuando a sitemare con la mano sinistra un cavo o una tastiera e incitando i presenti a ballare addirittura sul palco accanto a loro.

Non viene in mente un gruppo la cui setlist sia un tale spaccato di vitalità e storia della musica popolare americana. E non c'è stato spazio per alcune delle facce "altre" che i Los Lobos sanno mettersi, altrimenti sarebbero state canzoncine di marca Disney stravolte dal loro genio incontrollabile, o trame di latin rock meno decifrabile di quello mainstream che i più associano a questa band.

Arriva l'estate piena e con lei un tour americano che vedrà il quintetto attezzarsi per festival di ogni tipo (date anche a fianco della rinata Steve Miller Band), frammentarsi nei Los Super Seven, lanciarsi in Crociere del Rhythm'n'blues (va molto, da qualche anno, pagarsi una crociera dove, a cielo aperto e in navigazione, suonano le tue band e musicisti preferiti) e prepararsi alla nuova fatica discografica, Tin Can Trust, il primo "vero" disco in cinque anni, che sarà nei negozi tra un mese esatto, ai primi di agosto, e conterrà una cover dei Grateful Dead.


West L.A. Fadeaway, che i Dead incisero nel 1987 per In The Dark, è il secondo omaggio di Hidalgo e soci alla band di Jerry Garcia. Ci fu Bertha nel 1991, incisa per Deadicated, l'album tributo ai Dead. Quelli erano anni in cui i Los Lobos erano un po' più centrali nel mercato del disco. Venivano dal trittico, forse insuperabile, formato dagli album How Will The Wolf Survive, By The Light of the Moon e In The Neighborhood. L'eco della colonna sonora del film La Bamba non si era spento e un "certo" suono di Los Angeles aveva ancora tutti i riflettori puntati addosso (dai Blasters a Stan Ridgway, tutti stavano ancora con una major).

Oggi le trecento persone raccolte a Roma testimoniano che almeno da noi è rimasto solo lo zoccolo duro ad occuparsi di certe traiettorie della musica della Città degli Angeli. Non c'è nemmeno da scommettere su alcun ritorno di fiamma. Resta confortante però vedere come questa band sui cui dischi si può leggere, prima dei nomi dei componenti, "The Los Lobos still are...", non abbia perso un grammo di quella scioltezza con cui affrontava i palchi vent'anni fa e più, e che c'è un nuovo lavoro dietro l'angolo.

Serve a restare vivi, a dire "ci siamo", a fare la voce grossa nei confronti dei tipi della Rock'n'Roll Hall of Fame. Perchè è davvero strano che questi "ragazzi", che sembrano avere ingoiato il grande libro di tutte le musiche d'America, siano "solo" ricordati nel "salotto delle celebrità" del Rockabilly per la cover di un brano di Ritchie Valens (La Bamba).
Il che può risultare un onore ma anche una insopportabile limitazione per una band così completa.

(grazie a Filippo De Orchi per le foto dei Los Lobos)

mercoledì 14 aprile 2010

DAVID LETTERMAN scivola su ROBERTO BENIGNI



Sere fa. Un Letterman Show. In replica un recente episodio. Il popolare presentatore americano conversa con Tom Hanks, che tutto è tranne lo scemotto di Forrest Gump. E' sensibile, elegante e rispettoso. Letterman, a cui è sempre andata tutta la mia simpatia, nell'occasione lo è molto meno. Si parla di Premi Oscar, di come "ci si sente quando lo vincono gli altri". Di come sia – afferma Hanks, spesso sconfitto di misura nelle notti dell'Academy Award – un privilegio perderlo se a portarselo a casa sono Roberto Benigni, Russel Crowe e Dustin Hoffman ("it's an honor to lose with those guys"). Ed ecco lo scivolone di Letterman, sgradevole e saccente: "mmm... quel... Roberto Benigni... solo un errore contabile" ("that, that Roberto Binini thing... just a bookkeeping mistake"). Sorride stupidotto e cerca il consenso del pubblico e di Hanks, che non si scompone. "Roberto ha vinto con un film meraviglioso, "La vita è bella", e una bellissima interpretazione", incalza l'attore.
Letterman cambia discorso.
Mi chiedo: noi italiani abbiamo amato – e con noi il mondo intero – molti film americani sul Vietnam, storia e sofferenza di quel popolo (e non solo). Li abbiamo celebrati anche quando avevano una confezione grossolana.
Benigni un errore contabile? Un infiltrato, un inciampo? L'Olocausto trattato con tanta meravigliosa delicatezza e premiato con pieno merito è un errore contabile? David Letterman, please. Non è lei quello il cui programma ospita una rubrica che si chiama "Will it flow?" ("galleggerà?"). Ci si tuffi lei nella vasca. E affondi.

http://www.youtube.com/watch?v=O4p_CTGY7lk

mercoledì 19 agosto 2009

FERNANDA PIVANO (1917-2009): l'ultima traiettoria di una "shooting star"



“Seen a shooting star tonight
And I thought of you.
You were trying to break into another world
A world I never knew”. (Bob Dylan)

L’estate, che strana l’estate. L’estate è di brutte partite di calcio dalle trame ancora acerbe, e di morti – almeno quest’anno – che ti sfiniscono quanto il caldo. Ho recentemente postato a fatica in questo blog dei brevi ricordi di Michael Jackson e di Willy De Ville, due tipi diversi tra loro, diversi che di più non si può. Ma a ognuno, tanto all’indecifrabile Jacko quanto a quel goloso di vita che era De Ville, è legato un pezzo della mia vita, un ricordo personale, un momento che – come loro – non tornerà. Non ho fatto in tempo a prendere atto della morte di quel grande della chitarra che è stato Les Paul (dove sarebbero oggi Jimmy Page e tanti altri senza lo strumento, la Gibson Les Paul, che lui ha plasmato assegnandogli il proprio nome?), che un altro pezzo di storia della musica e della letteratura se ne va. Due vecchietti, si dirà, “avevano dato” – 94 anni lui, 92 lei – ma che perdite colossali! Note e parole che a dispetto della morte resteranno aggrappate a questa vita.

Fernanda l’ho conosciuta. E’ stata una di quelle cose belle, stella luminosa e improvvisa, che ha attraversato il mio cielo quando avevo l’impressione che lassù fossero solo nuvole. Nel grigiore di anni in cui mettevo al servizio della discografia (era una major, di quelle che ancora resistono) la mia straripante passione per la musica e uno spesso inutile entusiasmo, poteva accadere di trascorrere qualche ora con Fernanda Pivano, quella che ha tradotto Hemingway e reso più comprensibili dalle nostre parti le prime canzoni di Bob Dylan.

Fa niente che dovevo sobbarcarmi imbarazzate telefonate per chiedere ai giornali spazio per improbabili e cinguettanti star. Fa nulla che pensavo e dicevo che Morgan era un talento incompreso (eravamo in pochi, ma ci credevamo) e dall’altra parte – che poi in realtà era o doveva essere la “mia” parte – si facevano spallucce. E pazienza se non si rispondeva più al telefono agli artisti il cui singolo non era piaciuto alle radio. Un giorno arrivava nella tua vita Fernanda Pivano (o Fossati, o Dylan, o qualcun altro) e il cielo cambiava colore.

Succede – passo al presente, per sentirmi di nuovo un po’ lì, con lei – che mi chiamano i tipi della Minimum Fax. Hanno assoldato la Pivano per alcuni lavori editoriali, in più lei deve scrivere per un quotidiano qualcosa su Dylan, che è di scena a Roma, tra i marmi bianchi del Palazzo della Civiltà e del Lavoro. Dieci anni fa, o poco più. Me la affidano, o quasi. Lei è puntuale, la scorto giù per le scale, rallentiamo per un saluto a Francesco De Gregori, poi dritti fino al camerino di Bob Dylan, il “suo” Bob, che non vedeva da anni. Durante lo show lei resta seduta, e immobile, a viaggiare con i ricordi. Alla fine mi racconta brandelli di vita, scorci eccezionali di un mondo che non vedo più, e mi chiede se l’indomani potrà disturbarmi per chiedermi qualche dettaglio del concerto e per dettarmi, successivamente, il pezzo che dovrà mandare al giornale.

Quando mi chiama è stanca ma affabile, dice che la musica la tiene viva e che ogni dieci libri prova a comprare un disco ma non sa mai dove dirigersi. Non la rivedrò più, anzi la scorgerò in un video di Ligabue, “Almeno credo”, dove lei sarà il più prezioso dei cammeo, incastrata tra parole intelligenti (“credo nel rumore di chi sa tacere”) e qualche citazione Sixties (il mitico furgone Volkswagen e quei cartelli a farci leggere il testo, come accadeva in “Subterranean Homesick Blues” di Bob Dylan).

Tra quarantott’ore sarò a Cleveland, dove al Rock’n’Roll Museum sta per iniziare un lungo weekend di celebrazioni per il quarantennale di Woodstock. Sarà la festa di quell’America che è arrivata ed è stata compresa in Italia grazie alle sapienti e appassionate traduzioni di Fernanda Pivano. Ora che i suoi occhi, quegli occhi che si sono incontrati con quelli di Cesare Pavese, di Jack Kerouac e di Fabrizio De Andrè, si sono chiusi per sempre mi piace ricordarla con un suo limpido e speranzoso commento di metà anni Sessanta colto dopo un concerto di Bob Dylan, del “suo” Bob Dylan:

“Che emozione, che orgoglio, che felicità quella sera a San Francisco, in attesa del concerto di Bob, quando Allen (Ginsberg) mi aveva portato in un bar, davanti a un piccolo jukebox ad ascoltare ‘Mr. Tambourine Man’. Ginsberg mi aveva spiegato che finalmente il loro, il nostro messaggio, era esposto senza poter suscitare interventi della censura, e i nostri sogni sarebbero entrati nei jukebox di tutto il mondo. Le nostre speranze sarebbero state improvvisamente conosciute da tutti, e le nostre illusioni proposte a tutti”.

giovedì 13 agosto 2009

ERIC CLAPTON E STEVE WINWOOD: "Live from Madison Square Garden", il disco dell'anno?


I grandi dischi del rock’n’roll – “Pet Sounds” dei Beach Boys, “Revolver” dei Beatles, l’unico dei Blind Faith, “Transformer” di Lou Reed, “Born To Run” di Springsteen, “London Calling” dei Clash, “The Joshua Tree” degli U2, “Murmur” e "Automatic For The People" dei Rem e molti altri – sono un’anfetamina per chi ascolta certa musica da sempre. Ti tengono sveglio e vivo, nella speranza che miracoli del genere possano accadere di nuovo. Quanto ciò sia difficile è purtroppo sotto gli occhi e negli I-Pod di tutti. Stracolmi, questi ultimi (almeno quelli di chi appartiene alla mia generazione), di brani pescati da compilation, ristampe e dal meglio che il classic rock ha offerto e continua a offrire. Discorso di parte – si dirà – ed è vero, ma in questi mesi in cui l’appartenenza a qualcosa è identità urlata – si appartiene alla schiera di lettori di “quel” giornale, si cerca conforto in “quel” Tg, ci si guarda cercando di cogliere “quel” dettaglio che confermi la sensazione di assomigliarsi in qualcosa – la musica non può sfuggire alla regola: è una certezza, un marker che segnala i codici della nostra identità, o di quel che resta in questo diluvio di incertezza.


Un amico mi ha “prestato” il live di Eric Clapton e Steve Winwood perché non ce l’ho fatta ad aprire i pacchetti arrivati da Amazon: sono in vacanza! Attraverso un rapido passaggio dal cd al pc portatile, queste canzoni sono finite con mia grande sorpresa nel mio nuovo cellulare. La sorpresa ha a che vedere con il fatto che pur se gestisco con sufficente disinvoltura questo blog dovunque io mi trovi, resto pur sempre uno che guarda con sospetto agli articoli sulle nuove tecnologie, uno che piuttosto che leggere il libretto di istruzioni del nuovo hard disk recorder pagherebbe la stessa cifra investita per la prodigiosa macchina. Uno, insomma, che fa un sorriso di approvazione ogni volta che legge il titolo del blog “Torno ai vinili” del dirimpettaio, di rete e di musica, Maurizio Pratelli e che da anni respinge ostinatamente le richieste di acquisto della propria collezione di bootleg a 33 giri di Bruce Springsteen sebbene prenda polvere a tre metri dal pavimento. Avrete capito il soggetto, ma se siete arrivati fin qui, anche perché attratti dalla locandina in stile “anni Sessanta psichedelici”, siete abbastanza strutturati per leggere di due sessantenni inglesi che hanno attraversato la storia del rock riportando il blues in America.

“Live From Madison Square Garden”, approdo newyorchese di un progetto con tutte le caratteristiche del “cash-in” (“facciamo cassa”: è andata così ai tanti Who-reunion tour, è pane quotidiano – e che pane! - quando vanno in giro gli Stones, dicono che Springsteen stia prendendo quella deriva ogni volta che agita le ali della E Street Band), è un disco di spaventosa coesione, talmente bello nel suo sprizzare classic rock da far impallidire ogni jam band che calchi oggi i palchi e ogni formazione che provi a raggiungere quell’equilibrio tra espressività rock-blues e forza del repertorio che solo gli Allman Brothers possono ancora permettersi. Con simile perizia ci si può anche arrivare a suonare anche se non ci si chiama Clapton e Winwood (ma provateci voi, poi ne riparliamo, pur contando che si tratta di slowhands, tanto sulla chitarra Stratocaster quanto sull’organo Hammond B3), ma sembra davvero impossibile, al giorno d’oggi, mettere insieme tante buone canzoni per fare un concerto di pezzi originali. Eh già, perché a parte il largo omaggio a Jimi Hendrix (3 i pezzi, e come non ricordare che anche nella “Voodoo Chile” originale c’era Winwood all’organo) qui viene riscritta una storia quarantennale che è quasi tutta dei protagonisti di questo preziosissimo live. Una storia che dai Bluesbreakers di John Mayall e dallo Spencer Davis Group, passando poi per i Cream, i Blind Faith, Derek and the Dominos e i Traffic è marchiata Winwood o Clapton. Difficile trovare due musicisti che abbiano totalizzato insieme tante esperienze basilari nella storia del rock e che da solisti abbiano raggiunto gli stessi vertici di popolarità toccati da dischi come “Slowhand” (Clapton) e “Arc Of A Diver” (Winwood).


Il bello è che non è qui nemmeno il caso di storcere il naso come si fa di fronte a prodotti del genere, e a nulla serve osservare che negli anni Duemila Clapton non ha fatto altro che unire le forze sue con quelle degli altri (l’album con B.B.King, la fugace reunion dei Cream).


Queste canzoni, il loro amalgama, la piacevolezza con cui tutto ci arriva, quel senso di storia che ti prende alla gola e poi ti mette al tappeto, tutto rende cd e dvd di “Live from Madison Square Garden” una caldo rifugio di vintage rock dove tutto funziona a meraviglia (basti sentire come ci sta bene “Forever Man”, che pure arriva da un Clapton che ammorbidiva il blues nel pop). Tra gemme assolute come “Presence Of The Lord”, “Glad”, “Well Alright”, “After Midnight”, “Can’t Find My Way Home” e “Dear Mr. Fantasy”, ed altre eccellenti riproposizioni come “Cocaine” e “Georgia On My Mind” non avrebbero sfigurato un paio di pezzi del Winwood solista d’alta classifica (“While You See A Chance”?), ma solleveremmo inutilmente la questione del pelo e dell’uovo.

Disco dell’anno, va scritto osando un po’, senza remore né vergogna, anche se mette tristezza sentenziarlo nel giorno in cui muore Les Paul, l’uomo che ha scritto la storia della chitarra elettrica, quindi anche di Clapton.