giovedì 4 ottobre 2007

BEYONCE’, MALESIA E CARNE TRITATA: storia di sogni e censure



La notizia battuta un paio di giorni fa dalle agenzie era chiara: “Beyoncè vietata ai giovani della Malesia a causa dei suoi abiti di scena succinti”. Niente concerto a Kuala Lumpur, si torna a casa. Con i musulmani non si scherza. Ma io ho fatto un sogno che nessuno può censurare. La scorsa notte ho sognato Beyoncè. Non credo si tratti di un sogno molto originale. La signorina texana dalla pelle color ebano muove il fondoschiena da anni su tutti i canali musicali. Qualcun’altro ci sarà pur cascato, in quel tipo di sogno. La sognavo che cantava - che avevate pensato?! - perché abbiamo tutti un cuore rock’n’roll ma che bello viaggiare anche nel pop e nel soul, vecchio e nuovo. Cantava bene, e si muoveva benissimo, ma quel che mi ha scosso, e svegliato, è stato il forte odore di patatine fritte che il sogno emanava. Quell’odore mi ha consentito un tuffo, anzi due, forse tre, nella mia memoria, bizzarro hard disk pieno di informazioni che ha aggrovigliato anche pomeriggi, sere e notti da discografico, sui luminosi carri di piccole e grandi star.

Tuffo numero 1, seconda metà degli anni Novanta: la piscina, si fa per dire, è alla periferia di Bologna.

Nel minivan diretto verso un hotel con poche stelle stiamo tutti un po’ stretti: io, le Destiny’s Child e i nostri diversi destini. Unico bianco della compagnia (a parte l’autista), mi sento come sulla 125ma ad Harlem, quando lasci la fermata del subway per incamminarti verso l’Apollo Theatre. Sui passaporti di quasi tutti gli occupanti c’è scritto, alla voce last name, Knowles. Michael è il manager, quello che comanda una banda di minorenni che sognano di fare un giorno le star. Due delle ragazze sono figlie sue. Una, Beyoncè, canta, l’altra è quasi in viaggio premio perché è qui accreditata come hair stylist, parrucchiera di artiste che di fatto si pettinano ancora da sole.



Le Destiny’s Child che scendono dal van e fanno il check in con curiosità pensando di essere nel centro del mondo (macchè, siamo ai bordi di un’anonima tangenziale) sono ancora quattro. E’ la prima formazione, che vedrà sopravvivere soltanto Kelly (Rowlands) e, appunto, Beyoncè. Quella a tre, dei dischi d’oro e dei mille riconoscimenti, è ancora molto in là da venire.
Tre camere bastano ad ospitare la piccola comitiva. Le ragazze le mettono subito sottosopra, aprendo valigioni carichi di vestiti, troppi e inutili per la ridottissima attività promozionale che l’Italia può al momento offrire al gruppo. Hanno un forte accento del sud, e quando si dimenticano di aver ringraziato Dio una decina di volte nei due album finora pubblicati, sparano un bel po’ di parolacce prendendosela con la piastra alliscia capelli che fa le bizze.
Eccole finalmente pronte. Nessuna intervista stampa, e anche le radio ci hanno snobbato. Porte aperte invece da Red Ronnie, in quel Roxy Bar televisivo che senza puzza sotto al naso ha ospitato Britney Spears, i Backstreet Boys e altri fenomeni in erba quando altri ancora chiedevano “chi?”.
Partiamo senza sapere che la serata sarà interminabile, perché per registrare un pezzo accappella e un “vivo su base” (gergo televisivo italico per half playback, insomma una specie di karaoke) ci vorranno ore. Beyoncè, Kelly, Le Toya e La Tavia ci mettono del loro, con ritocchi al trucco ed estenuanti prove della voce, al resto provvede un cast di artisti oceanico per una trasmissione di un paio d’ore. Le ragazze, ancora lontane dallo stardom, ingoiano felici la noia per l’attesa e la nebbia che avvolge il capannone prefabbricato in cui stiamo registrando. Siamo per l’esattezza a Funo di Argelato, mica a Hollywood.
Al termine, freddo e parecchia fame. Propongo le tagliatelle al ragù di Rodrigo, downtown Bologna, a due passi da Piazza Maggiore. Un classico. C’è un po’ di strada da fare ma ne vale la pena. Un’alternativa più avventurosa è la grassa provincia modenese: un’ora di macchina a sud e si incontrano, magnificati da qualsiasi rockstar del pianeta, tigelle, gnocco fritto, culatello, aceto balsamico e Lambrusco, il rosso più amabile della zona. Macchè: le ragazze obbligano a un dietro front in albergo, su loro richiesta mi tocca spedire l’autista a cercare il più vicino McDonald’s. Tornerà carico di meraviglie e il disordine delle tre camere da letto si trasformerà in un inferno fatto di cheesburger, maionese, milk shake, patate fritte. E di rosso soltanto il ketchup.


Tuffo numero 2, all’alba degli anni Duemila: l’inverno è quello, più sorridente, della Riviera Ligure.

Solo il meraviglioso circo della musica può trasformare in soli quattro anni un gruppetto di fanciulle poco scolarizzate e caciarone in un trio di superstar conosciute in tutto il mondo. Nonchè miliardarie. Tant’è che di minivan questa volta ne occorrono sette, e neanche tanto mini, perché le ragazze hanno un codazzo di trenta persone tra familiari (presenti a vario titolo), assistenti personali, professionisti dell’immagine (dal trucco alle coreografie) e ballerini. Volo privato su Nizza, albergo a Monte Carlo, poi ci aspetta il palco del Teatro Ariston a Sanremo. La ribalta è quella del Festival della Canzone Italiana, di cui le ragazze poco sanno, ma sgranano gli occhi quando avverto che “ci sono stati anche Stevie Wonder, Paul McCartney e Madonna” e che “vi vedrà tutta l’Europa”.
Muovere una tale carovana di anime all’interno degli stretti corridoi dell’Ariston e in camerini grandi come la cucina di casa nostra non è facile, ma quel che conta è “il passaggio” (gergo discografico per indicare l’esibizione televisiva). E il “passaggio”, provato e riprovato nel pomeriggio su quel palco che mette paura ancora oggi perfino ad Al Bano, va alla grande. Anche perché Survivor, strombazzata da tutte le MTV del pianeta, è un canzone-hit di quelle colossali anche se non brilla per eleganza né per originalità.
Beyoncè e le altre vengono naturalmente prese d’assalto da tutti quei mezzi di comunicazione che quattro anni prima avevano risposto “Destiny chi?”. Faccio buon viso a cattivo gioco quando davanti alle telecamere del Tg1 una delle tre, interrogata sulle bellezze dell’Italia, risponde “Oh, Nizza is sooo beauuutiful!!!”. Poi, quando si spegne l’ultimo microfono, bodyguard e autisti vari spianano la strada ad una meritatissima abbuffata, spesso il traguardo più ambito da popstar e rockstar che trafficano le nostre strade. Per l’occasione è stata requisita una buona metà del ristorante più chiacchierato di Sanremo, quello che ha il pesce più buono, i prezzi più alti e naturalmente il maggior numero di paparazzi appostati davanti all’ingresso. L’irreparabile accade quando i sette minivan neri (praticamente un funerale) transitano davanti all’unico McDonald della città. “Stop, in the name of love”, avrebbe cantato Diana Ross con le Supremes. Un semplice ma efficace “Stooop” giunge invece dalla poderosa ugola di Beyoncè, che decreta la fine del sogno di molti. Niente pesce, nessun relax di fronte a calici di costosissimo vino bianco. Il sogno, a quanto pare ricorrente, delle Destiny’s Child è quel panino rotondo pieno di carne tritata. L’unico che ha lo stesso sapore se lo mangi a Philadelphia o a Istanbul.
Si torna rapidi nei camerini dell’Ariston perché è impensabile che tre giovani e celebratissime ragazze di colore con vertiginose minigonne di scena possano consumare, inosservate, un hamburger nella piazza principale di Sanremo, a Festival in corso (tanto per dare l’idea della fama da vip che si scatena da quelle parti in quella circostanza, basta dire che la cosa è impossibile anche se ti chiami Mino Reitano). A nessuno importa, ovviamente, della penale che la casa discografica pagherà per la sala inutilizzata: quel che conta è che i panini e quella “valanga di patatine fritte” (“tons of french fries, pleeease”, urla, modulando soul, una delle tre) arrivino su “presto e ben caldi”.
Di Sanremo, città che ha ospitato rockstar milionarie e reali d’ogni provenienza, le ragazze non ricorderanno che un retropalco angusto e un’insegna luminosa che non smette mai di far brillare i loro occhi.



Tuffo numero 3, l’ultimo - New York / Milano 2007

Beyoncè è da tempo su tutti i muri d’America. In ogni radio, solista con Crazy In Love, in trio con Destiny Fulfilled, di nuovo solista con Deja Vu. E su qualsiasi schermo televisivo si posi il tuo sguardo. Papà Michael Knowles ha lavorato bene in tutti questi anni. Naturalmente il cinquanta per cento dei magazine femminili – da Vogue a Ebony – ritrae la ragazza sorridente. Spesso di schiena, perché ormai è guerra, a colpi bassi, tra lei e il sedere assicurato di JLo. Capelli lisci o afro, dipende dal target della pubblicazione.
Se mi incontrasse oggi forse non mi riconoscerebbe, ma io riconosco lei. Che mi guarda da uno spot tv. Vorrei parlarle, farle i complimenti per l’irresistibile ascesa, dirle che ha convinto tutti, anche quelli del “Destiny chi?”. Che a piccoli passi si arriva lontano. Che ho appena mangiato un cheersburger a Times Square e “diavolo quanto è buona ‘sta roba che puzza d’America”. Che la gara con la Lopez è proprio un bel vedere. Ma lei non può vedere me.
La incontro di nuovo, in carne – che carne - ed ossa, nel backstage del suo concerto milanese di Assago (storia lunga: ho accompagnato una nipotina e la sua amichetta, che stravedono per lei). Le ricordo fugacemente di Bologna, tanti anni prima, lei fa “yeah, sure”, con cortesia e un bellissimo sorriso, quello che le fa pubblicizzare anche jeans e cosmetici.
E’ lo stesso che sfoderava in quello spot, pagato profumatamente dai signori della grande M gialla, quella dei panini. Per farle dire di quella carne tritata ciò che lei ha sempre pensato e detto gratis.

A ognuno il suo destino.

mercoledì 3 ottobre 2007

ROCK'N'ROLL HIGH SCHOOL FOREVER: pagine sui Ramones e storie di Punk quotidiano



El purtava i scarp de tennis, cantava in milanese nemmeno troppo stretto Enzo Jannacci. Di stretto aveva le spalle il ragazzino di cui cantava Francesco De Gregori, il Nino della Leva Calcistica della classe '68, quello con le scarpette di gomma dura. Scarpe sportive della musica leggera italiana. E all’estero? All’estero insieme alla gomma hanno inventato il rock’n’roll, e lì – vedi America – se dici rock’n’roll dici Converse, le scarpe con la stella, le scarpe delle All Stars, modello Chuck Taylor. Quelle che portava anche Marlon Brando sotto ai jeans con l’orlo rimboccato, quelle che penzolavano dalla chitarra di Bruce Springsteen in qualche manifesto dell’epoca di Born to Run: 1975, le Converse facevano furore. Soprattutto quelle dei Ramones.


Chiudi gli occhi e li vedi tutti e quattro – Joey, Johnny, Dee Dee e Tommy (ma ci fu anche Marky, entrato e uscito, poi rientrato, in sostituzione di quest'ultimo) – appoggiati a un muro di mattoni, con quelle scarpe ai piedi, le gambe magrissime (soprattutto Joey, lo spilungone del gruppo, voce inconfondibile) e i jeans sfilacciati. A turno, le portavano bianche, nere o blu. Ogni tanto spuntava una maglietta con su scritto “move or die”. Erano questi i Ramones, rock’n’roll all’insegna del movimento, a partire dalle scarpe, che a seconda del mood potevano anche essere le Keds, anch’esse americane.
Sono stati gli ultimi (o quasi) a farsi produrre da quel capellone matto di Phil Spector che adesso sverna in galera, furono i primi (o quasi) ad accorgersi che infilare un po’ di incazzatura in quattro accordi di rock’n’roll poteva portare all’invenzione del punk. Non che Eddie Cochran e Gene Vincent, solo due tra i tanti punti di riferimento dei quattro ragazzi di New York, non ne avessero avuta, di incazzatura, ai loro tempi, ma i Ramones e altri compagni di punk della seconda metà degli anni Settanta (anche e soprattutto quelli britannici, naturalmente) ci mettevano una forza di gola che nemmeno Elvis aveva. Ugole alla carta vetrata, quelle dei ragazzi - tutti - della leva rockistica del ’77 e dintorni, annate da bere tutte d’un fiato.

Era uscita tempo fa, per i tipi di Baldini e Castoldi, Please Kill Me, preziosa ricostruzione di quegli anni offertaci da Legs McNeil e Gillian McCain. Sottitolo - sempliciotto ma efficace – “il punk nelle parole dei suoi protagonisti”. In copertina, a torso nudo (naturalmente), Iggy Pop: in una mano una birra, l’altra affaccendata a rovistare tra i seni di Debbie Harry dei Blondie. Lei, meno fascinosa che in certe copertine del gruppo, protendeva la lingua a cercare i capezzoli di lui. Anche questo è stato il punk: "rottura", anche attraverso l’immagine e le immagini, con ciò che avevamo visto, e sentito, prima.
Alla fine del libro, interessantissimo e completo, c’è un capitoletto, un’appendice molto sbracata, giustamente intitolata “altre testimonianze di depravazione”. Richard Hell dei Television passa in rassegna le sue prime scopate (la primissima, a quindici anni, con la cameriera diciottenne di un Jerry’s Drive In di chissà dove); Iggy Pop ricorda quando le ragazzine lo fermavano per strada chiedendogli di poter verificare se le sue cicatrici erano vere (“i punti di sutura erano diventati di moda, mi facevano delle cuciture enormi e nere, con tutti i fili che spuntavano”); Scott Asheton, batterista degli Stooges, ripensa a quando Iggy si faceva a casa sua di acidi e Qualuude. Tra tante memorie, trascurabilissime per molti, preziose per chi quegli anni e quella musica li ricorda bene, anche quella dell’artista Duncan Hannah, che a metà anni '70 era fresco di Parsons School of Design (la più "in" di New York) e amico un po’ di tutti. Hannah ricorda il suo amico Eric Lee, dei misconosciuti Marbles, sorvolando sul fatto che fu lui a fare il primo provino a Patti Smith, ma indugia su altri particolari di margine (“nell’estate del 1975 a New York c’erano 40 gradi, bevevamo Duncan Scotch da 4 dollari e 50 al litro, era pessimo, la sbronza la saltavi a piè pari, appena bevuto avevi già i postumi”); poi dice ancora di Lee, e ricorda di quando il suo amico, omofonico ma disoccupato, scoprì che all’angolo tra la Cinquantatreesima e la Terza, a New York, era un via vai di prostututi, e finendo col fare i pompini in macchina per guadagnare molto di più di quello che la musica riusciva a dargli.
53rd & 3rd, dal primo album dei Ramones (1976), parlava di quell’angolo di strada dell’East Side, storie di droga pesante e sesso (“ero un berretto verde in Vietnam, ora ho altro di cui preoccuparmi / prendo il rasoio e faccio ciò che Dio proibisce”), dove un reduce di guerra si rade per bene e finisce sul marciapiede. Si possono scoprire anche testi di questo tipo tra la convulsa e breve elettricità di una canzone punk.

Ramones: la biografia ufficiale, messa insieme da Jim Bessman nel 1993 e tradotta prima dell'estate da Arcana per il nostro mercato, scava in profondità nello stesso solco tracciato da Please Kill Me, e sceglie - incastrata tra l'ottima prefazione e l'utile appendice di Federico Guglielmi (che ricostruisce gli anni 1993-2007) - di dirla tutta sulla vicenda dei quattro ragazzi partiti dalla Bowery, la strada dei poveracci, per conquistare il mondo con ruvide canzoni da due minuti e mezzo. Contavano quattro con la stessa foga con cui Ringo dava il tempo agli altri Beatles per I Saw Her Standing There, si facevano ritrarre davanti all’ingresso a quattro colonne della Casa Bianca in posa nient’affatto orgogliosa. Quel numero, il quattro, era una costante. Un discografico per denigrare la band sbuffò: “tre accordi, quattro giacche di pelle”, come a dire che in quegli anni di gruppi numerosi e di rock un po’ ampolloso per i Ramones non c’era posto.
Il posto se lo trovarono, e con loro tanti altri: si chiamava CBGB’s, angusto locale rock con affaccio proprio sulla Bowery, e lì la discografia americana pescò eccome. Mentre a Londra covava il fuoco del Punk, a New York si preparavano contratti per Blondie, Patti Smith, Talking Heads. E Ramones, naturalmente, che esordirono nel 1976 con il singolo Blitzkrieg Bop, centotrentaquattro secondi che oggi – a più di trent’anni di distanza – si ancorano saldi ad un onorevole 94mo posto tra le “500 più grandi canzoni di tutti i tempi” elette da Rolling Stone. Mica male per un gruppo con pochi numeri!

L’America si concesse col tempo, in Inghilterra capirono subito. Il New Musical Express scrisse “Il mondo ha bisogno del minimalismo dei Ramones. Ha bisogno di una band che ha distillato tutti gli orientamenti morali, politici e sociali nella frase ‘Gabba Gabba Hey’. E ne ha bisogno ora”. I Ramones sono stati i Beach Boys degli anni Settanta (sentire I Wanna Be Your Boyfriend) e non hanno smesso di esserlo anche dopo, quando sono riusciti ad attraversare con la stessa freschezza gli anni della Disco, dell’elettro-pop, del grunge e di mille scoperte di quella discografia che li avrebbe lasciati a marcire tra i rifiuti. Erano partiti da Forest Hills, un sobborgo del Queens che ospita anche lo Shea Stadium dove suonarono i Beatles, avevano iniziato anche grazie ad una batteria vinta con i bollini premio del supermercato King Korn. Tutto ciò a cui ambivano era provare a suonare come facevano Lennon e McCartney, Gary Lewis and the Playboys e gli Who. Tecnicamente, a quelle formazioni i Ramones si avvicinarono solamente, ma in quanto a furore le surclassarono, e considerando la veemenza degli show di Daltrey e compagni la cosa non è di poca rilevanza.

Questo e molto altro si trova nella dettagliatissima biografia di una band molto amata che non c’è più, e che ha salutato definitivamente tre dei suoi quattro membri fondatori. Degli originali, in questo mondo è rimasto solo Tommy, a rigirarsi tra le dita tanto passato senza il quale non avremmo oggi mille gruppi, Green Day in testa. Il carrozzone del disco che traballa sempre di più ringrazia, consapevole che nessuno scriverà più una Sheena Is A Punk Rocker.