martedì 17 luglio 2012

BRUCE SPRINGSTEEN E PAUL McCARTNEY AD HYDE PARK
Il Boss, il Baronetto, Woody Guthrie e l'uomo che stacca la spina



Londra, 14 luglio 2012: avevo un appuntamento con la storia e non lo sapevo. Un momento: se ami il rock'n'roll e lui si e' preso il posto piu importante tra le passioni della tua vita e la musica avvolge la tua vita, attraversandola da capo a piedi, e anche il tuo lavoro ne dipende fortemente, se prendi un aereo per andare a incontrare per l'ennesima volta Bruce Springsteen, la sua Legendary E Street Band, con annessi gli E Street Horns e un manipolo di coristi che sarebbe da farci ogni sera oltre all'Apollo medley anche lo Stax medley, l'Atlantic medley, il Curtis Mayfield medley e il Sam Cooke medley, se accade questo sai che stai andando comunque a prenderti un altro mattoncino della storia in corso della musica popolare, quella che nella sua fase piu' recente - diciamo gli ultimi sessant'anni? - ha condizionato e colorato il mondo, entrando con forza nelle sue trasformazioni storiche, nelle sue evoluzioni, nelle sue rivoluzioni e pure in ogni avvisaglia di involuzione. E' accaduto col girare gracchiante dei primi 45 giri, e' proseguito nella piu' ovattata tecnicita' dei compact disc, continua oggi nell'era della musica liquida.

Le canzoni di Woody Guthrie avvisavano il mondo. Quelle dei Beatles facevano ballare e sognare il mondo. Quelle dei Creedence Clearwater Revival facevano riflettere il mondo nei giorni del Vietnam. Quelle di Bruce Springsteen hanno migliorato il mondo, infondendogli coraggio e oggi lo proteggono consolandolo. Quelle dei Rage Against the Machine e ora di Tom Morello urticano il mondo di chi ha il potere e armano chi il potere non ce l'ha, anzi: non ha niente.
Nel giorno del centenario della nascita di Woody Guthrie, colui che sulla sei corde acustica con cui suonava "This Land Is Your Land" e "Ain't Got No Home" aveva scritto "questo strumento ammazza i fascisti", John Fogerty, Tom Morello ("armiamo i senzatetto", e' pennellato sulla sua sei corde elettrica), Paul McCartney e Bruce Springsteen hanno camminato e cantato, hanno saltato e suonato sullo stesso palco. Bruce padrone di casa per contratto, ma il suo palco, si sa, e' la casa di tutti.


A casa mia, le mie figlie sono ancora troppo piccole per capire tutto questo ma mi auguro ne beneficino in qualche modo nella vita che le attende. Ignorano Woody Guthrie, scansano malamente Bruce Springsteen ma sono state "punte" dai Beatles. Pur avendo ogni musica a disposizione, non sono partite né da Okemah né da Asbury Park: sono partite da Liverpool, Inghilterra, e saltano, con un entusiasmo che mi mette i brividi, da "From Me To You" a "We Can Work It Out". Anche io ho acceso il motore dell'interesse verso la musica con i Beatles, piu' o meno negli stessi anni in cui acquistai, in audiocassetta, l'album "Mardi Gras" dei Creedence Clearwater Revival. Nel primo caso mi lanciai con assoluta coscienza sulle canzoni di "Abbey Road", che conoscevo battuta per battuta, nel secondo prevalse del tutto il caso: il negozio di dischi suonava "Someday never comes" e la commessa era proprio carina. Tanto che non le fu affatto difficile fare quella strana vendita a un bambino. Ancora oggi ci ripenso e mi sorprendo di come le cose siano andate e di come tutto sembri scritto.
Le mie figlie, dicevo. Hanno scoperto l'esistenza di Abbey Road a sette anni. Sono state più precoci di me, tanto che quando mesi fa le ho portate a vedere l'esterno degli studi dove registravano i Beatles si sono messe spontaneamente a scrivere qualcosa sul muro. Un primo impulso che può significare tutto o niente, ma se esiste un senso di gratitudine verso la musica loro l'hanno mostrato subito.


A me capita di essere grato quotidianamente ai tanti che hanno prodotto la musica che mi ha nutrito e sostenuto negli anni, offrendomi possibilità, scenari, incontri. Tornare ciclicamente dove si consuma quel rito che è il rock'n'roll, una condivisione che rasenta la spiritualità, mi fa stare bene, giustifica tante cose che ho fatto nella vita e anche le tante che mi sono battuto per non fare. Rinnova in me la sensazione di avere fatto le scelte giuste e di non aver smarrito, mai, quella parte di me che mi spingeva a dieci anni, abbastanza misteriosamente, a comprare un disco minore dei Creedence Clearwater Revival o and andarmene in giro inventando le parole di "Octopus's Garden" e "She Came In Through The Bathroom Window" anzichè cantare "Montagne verdi".

A questo appuntamento con la storia ci sono arrivato immaginando che Springsteen avrebbe potuto suonare con John Fogerty che apriva per lui. E che forse Tom Morello, ospite in più episodi di "Wrecking Ball" e autore anni fa di una incendiaria cover di "The Ghost Of Tom Joad" a capo dei Rage Against The Machine, avrebbe fatto un salto a trovarlo nel suo set dopo avere suonato sullo stesso palco un paio d'ore prima. Poteva succedere ed è successo. Quello che che mi ha sopraffatto, ancora una volta, è quel grande disegno che sembra esserci dietro a giornate come quella che ho vissuto ad Hyde Park. Stavo per perdere l'aereo per Londra il giorno prima. Con la lingua alle ginocchia sono arrivato a pietire di essere ammesso all'ultimo volo possibile, ormai chiuso, visto che quelli del giorno successivo in cui era disponibile un posto non mi avrebbero consentito di arrivare in tempo ad Hyde Park. L'Hard Rock Calling, il Festival da cui Springsteen ha tratto il suo dvd "London Calling", quest'anno prevedeva, come detto, che Bruce suonasse nel giorno del centenario della nascita di Woody Guthrie, e che Morello e Fogerty, autori in epoche diverse di canzoni "agitatrici" come lo sono da un pezzo quelle di Springsteen, fossero della partita. Piatto invitante per il sottoscritto e un bel modo di concludere queto tour prima di dedicarsi completamente a quelle figlie che va bene portarle ad Abbey Road, ma vogliono papà con loro al mare, a tempo pieno, senza troppe distrazioni o aerei da prendere. E questa per ora la loro unica grande richiesta. Altre ne verranno, ci sarà il tempo per vagliarle.




La famiglia - the ties that bind - un amore che naturalmente scavalca la musica. Ma l'ultima serata rock'n'roll di un'estate memorabile (meglio del 1978 quando vidi per la prima volta Dylan? indimenticabile quanto l'81 del primo Bruce? Superiore all'85 che nei miei ricordi -  ma non solo nei miei – significa San Siro, e non aggiungo altro?) si è rivelata un pozzo di emozioni, la somma di tante forze, il modo migliore per unire – come si fa sulla Settimana Enigmistica – i punti disseminati sul foglio della vita e scoprire che non ne è rimasto uno che sia solo, perduto in tutto quel bianco, non raggiunto dal tratto segnato con l'inchiostro.
Non fosse stato per un controllore un po' troppo zelante degli accordi presi tra l'organizzatore e la città di Londra, uno di cui oggi non vorrei vestire i panni perchè ha staccato la spina e chiuso i microfoni nel momento sbagliato, oltre a "The Promised Land" e a "Rockin' All Over The World" cantate da Springsteen e John Fogerty ("l'Hank Williams della nostra generazione", avvisa Bruce presentandolo prima del suo show, flannel shirt di ordinanza come il suo idolo di gioventù) e a "I Saw Her Standing There" e "Twist and Shout" urlate in extremis da una E Street Band estatica insieme a Paul McCartney, avremmo goduto anche della folk song "Goodnight Irene", rimasta strozzata in un microfono che rimandava la voce di Springsteen – fuori tempo massimo – solo sulle spie del palco e non verso la gente.


Cos'era successo? Semplicemente che mentre McCartney e Springsteen già si preparavano a un terzo pezzo da cantare insieme, qualcuno ha fatto capire a un Boss e a un Baronetto – mica due qualsiasi – che gli toccava "smammare", così l'omaggio a Woody Guthrie, sussurrato a cappella e davvero impercettibile a chi era tra il pubblico, è stato la strana conclusione di una serata già storica che avrebbe potuto annoverare nella tracklist anche – proviamo a buttarla lì – "Come Together" o "All You Need Is Love".


Ma è inutile fare i conti su quel che non è stato. Vale di più la sostanza di ciò che è stato. Con la partenza piano e voce di "Thunder Road" ("questa è come una lettera d'amore che vi porto anni dopo avere aperto così il mio primo concerto londinese, ero quasi un bimbo"), con la presenza di Fogerty (le cui canzoni spinsero Springsteen a ingegnarsi per evitare la chiamata dell'esercito americano ma ancora di più l'hanno reso l'autore di canzoni che è), e con la chiusura affidata, a sorpresa, a Paul McCartney, questa è stata una serata devastante per i sentimenti. A cosa serve rimasticare, a 48 ore di distanza, la questione della spina staccata?

Collego i punti di tutta questa storia e mi pare proprio di ritrovarvi un pezzo significativo e larghissimo della mia vita. Il volo che stava per sfuggirmi nascondeva tutto questo, che ora racconto felice come un bambino di dieci anni.


(le foto di Springsteen e McCartney sono di Giovanni Canitano - all rights reserved - Thanks Giò)

sabato 26 maggio 2012

LA PARTITA DEL CUORE - 23 maggio 2012

Ho visto questo stadio riempirsi di giovani e di striscioni bellissimi, più di quelli del calcio. Ho visto arrivare artisti, calciatori e magistrati coraggiosi. Ho visto una foto di Niccolò Carosio e una di Tanino Troja, non lontane dalla lapide che ricorda 5 operai morti nella (ri)costruzione del Barbera. Ho visto Palermo dire NO, ancora una volta, alla mafia. E 4 milioni di persone a casa, ad affiancare tante buone intenzioni. Mi porto indietro una grande stanchezza e un indelebile ricordo: 5 minuti prima dell'inizio della Partita del Cuore reggo un pallone con la mano sinistra e stringo una piccola mano in quella destra. Insieme percorriamo una metà del campo, poi lascio il piccolo giocatore - che porta il nome di un nonno che non ha conosciuto - a quello che deve fare. E' il calcio di inizio più potente che io abbia mai visto. Ciao Paolo Borsellino, 4 anni.

mercoledì 9 maggio 2012


ROUTE 61 LAVORA PER L'ORCHESTRACCIA E... CROSBY STILLS NASH & YOUNG.... STAY TUNED!!!

In occasione dei quarant'anni dall'uscita del primo disco di David Crosby e Graham Nash (erano gli inizi dell'aprile 1972, ora siamo a maggio), riproponiamo da una pagina di Rockol di fine marzo questo articolo/intervista di Alfredo Marziano sull'etichetta Route 61.
E' un modo per ricordare a chi segue le nostre attività che stiamo lavorando ai prossimi due progetti - il disco di esordio de L'Orchestraccia (gruppo romano che avete visto all'opera nello show di Serena Dandini) e un ampio tributo alla musica di Crosby Stills Nash & Young che vede protagonisti moltissimi songwriters e band della scena americana (ma anche inglesi, irlandesi e australiani). Siamo "piccoli" e i progetti ambiziosi richiedono tempo. Io, Joe, Mauro, Francesco e David ci stiamo lavorando. Get your kick on Route... 61.
E.L.
(grazie a Giampiero Di Carlo, Alfredo Marziano e Gianni Sibilla).

AMERICANI  A ROMA - di Alfredo Marziano (da Rockol del 23/03/2012)

In una immaginaria mappa geomusicale, la Route 61 di Ermanno Labianca non sarebbe localizzata a Roma ma negli States, all'intersezione tra la Route 66 di Bobby Troup e la Highway 61 di Bob Dylan. "Le mie passioni musicali - il rock'n'roll e il cantautorato americano, Dylan e Chuck Berry - stanno lì", conferma il deus ex machina della piccola etichetta capitolina, autore televisivo, giornalista musicale e massima autorità nazionale in materia di Bruce Springsteen (cui ha dedicato una fanzine ai tempi molto nota agli appassionati, Follow That Dream, e numerosi libri).

"Siccome il '61 è anche il mio anno di nascita", spiega Labianca, "per i miei cinquant'anni mi sono voluto regalare una piccola label che assecondasse le mie passioni". I semi risalgono al periodo, a metà tra gli Ottanta e i Novanta, in cui  lavorava per la Sony come promoter: "Sembravamo fatti l'uno per l'altra: in fondo era la casa discografica di Springsteen, di Dylan, di Leonard Cohen, in quegli anni anche di John Mellencamp. E poi di Francesco De Gregori e di Ivano Fossati...Il mio mondo, insomma, le cose che mi piacciono: in seguito mi sono accorto che la musica vista dall'interno di una multinazionale è ben altro, anche perché quelli sono stati gli ultimi anni felici della discografia. Comunque fu lì che, con un'etichetta che si chiamava Totem, produssi il mio primo tributo a Springsteen, 'For you'. Il secondo, una quindicina di anni dopo, ha inaugurato nel 2010 il catalogo della Route 61".

Una piccola etichetta il cui sottotitolo dice tutto: "Americana made in Italy". Ovvero blues, country, jazz, folk, e (soprattutto) canzone d'autore di matrice Usa declinati secondo il gusto e lo stile di artisti (italiani, europei, americani)  in sintonia con quel sentire e modo d'essere. "Oltre che un omaggio a Bruce", conferma Labianca, "quel disco era anche un tributo a una certa scena italiana che si rifà al genere roots e alla musica americana: Brando, Daniele Groff, Andrea Parodi, Cheap Wine, Max Larocca, gli stessi Modena City Ramblers. Siccome il progetto ha funzionato, ho deciso di proseguire. Ho dato una mano a un vecchio amico innamorato della West Coast, Francesco Lucarelli, aiutandolo a completare un disco che si fregia del contributo di musicisti statunitensi e della partecipazione straordinaria di Graham Nash. Poi, con gli amici/soci che nel frattempo mi avevano affiancato, ho cominciato a guardarmi intorno in cerca di artisti interessanti a cui proporre di lavorare insieme. Uno dei primi è stato Daniele Tenca, un bluesman milanese di cui avevo molto apprezzato il disco d'esordio e a cui abbiamo dato un seguito con un album live. Poi sono arrivati i Mardi Gras, band romana con vocalist irlandese che in 'Among the streams' ha ospitato Liam Ó Maonlai degli Hothouse Flowers, e  Donald & Jen MacNeill, padre e figlia scozzesi le cui canzoni rimandano al primo Greenwich Village e al folk di Donovan".
Sempre con Springsteen come faro guida (tre cover nel disco di Tenca, una in quello dei Mardi Gras) e un'attenzione particolare alla musica che scorre al di fuori delle correnti principali (anche se a farla sono musicisti che il mainstream lo hanno frequentato: come  Marco Conidi, di cui Route 61 ha pubblicato un'antologia di demo e outtakes anni '90 intitolata "Cinque anni"). Difficile ritagliarsi uno spazio, nel difficilissimo mercato degli anni Duemila? "Proposte di questo genere hanno un loro pubblico. Ovviamente limitato, di nicchia, ma stimolante. Un pubblico che legge Jam, il Buscadero, in parte anche il Mucchio. Appassionati veri, quelli che non si perdono un concerto dei Los Lobos o qualunque folksinger americano transiti per l'Italia. Noi siamo 'old school', abbiamo un contratto per il digitale con Believe Digital e iTunes ma restiamo affezionati al supporto fisico, alle copertine dei dischi. Stampiamo qualche migliaio di copie ma facciamo un bel prodotto destinato a chi lo sa apprezzare".

Ma intanto è arrivato il momento di quello che Labianca chiama il "terzo step": "L'apertura verso realtà italiane diverse ma pur sempre  in sintonia con i miei gusti. Il primo esempio è l'Orchestraccia, una fantastica banda di cantanti e attori che fa spettacolo e propone musica interessantissima . Cerco di replicare, in piccolo, quello che ho imparato sulla strada lavorando come giornalista e come discografico". In attesa del colpo grosso, un tributo a Crosby, Stills, Nash & Young in coproduzione con l'etichetta svedese Hemifran a cui hanno già aderito nomi "cult" della scena statunitense come Steve Wynn, Elliott Murphy, Willie Nile, Neal Casal, Chris Cacavas, Cindy Lee Berryhill, Michael McDermott, Sid Griffin e Jennifer Stills. "L'abbiamo concepito per rendere omaggio, quarant'anni dopo, a una stagione creativa incredibile. E' un progetto che  cresce di giorno in giorno: sarà un album doppio, lo pubblicheremo anche in vinile e speriamo di farlo uscire nel mese di giugno. Il condizionale è d'obbligo, quando si ha a che fare con 20/25 artisti dall'agenda piena di impegni e  disseminati per il mondo. Per registrare il contributo di Ó Maonlai ci siamo spinti noi a  Dublino, e sono orgoglioso di poter dire che  a fine mese inciderà per noi  Judy Collins, cui Stills dedicò come noto 'Suite: Judy blue eyes'.  Sarà il primo tributo a livello mondiale alla musica di C,S,N & Y. Ancora una volta, e come sempre, abbiamo voluto fare un disco che ci piacerebbe comprare".
 

lunedì 7 maggio 2012

GREAT SONGS FROM 1972 #1



HEART OF GOLD - Neil Young

I want to live,
I want to give
I've been a miner
for a heart of gold.
It's these expressions
I never give
That keep me searching
for a heart of gold
And I'm getting old.
Keeps me searching
for a heart of gold
And I'm getting old.

I've been to Hollywood
I've been to Redwood
I crossed the ocean
for a heart of gold
I've been in my mind,
it's such a fine line
That keeps me searching
for a heart of gold
And I'm getting old.
Keeps me searching
for a heart of gold
And I'm getting old.

Keep me searching
for a heart of gold
You keep me searching
for a heart of gold
And I'm getting old.
I've been a miner
for a heart of gold.


lunedì 23 aprile 2012

AMERICAN DREAM (S) – Miami & The Groovers e Cesare Carugi


Miami & The Groovers pubblicano Good Things.
Cesare Carugi arriva al primo disco con Here's To The Road.

Lorenzo "Miami" Semprini capeggia i suoi Groovers da un bel mucchio di anni e da tre dischi. Insieme, lui e i suoi sono cresciuti attraverso Dirty Roads ('05), Merry Go Round ('08) e un gran numero di concerti. Assetto e stile di vita da bar band, questo è un gruppo di appassionati del r'n'r americano riferibile ai soliti noti del midwest e della costa est d'oltreoceano. Inutile fare nomi o paragoni perchè certe vette sono inarrivabili, soprattutto dal punto di vista dell'interpretazione vocale (qui ancora migliorabile e comunque fa simpatia quel mix tra slang americani e accento romagnolo), ma la strada dei Groovers è fatta di impegno e spunti interessanti.
Perchè certi slanci di questi piccoli eroi del boardwalk riminese "tengono" davvero e a tratti emozionano, come quando la splendida Before Your Eyes va a sondare con una pedal steel anche i suoni della California per trovare una sua nicchia tra Bob Seger, i R.E.M. e i Del Fuegos, o quando il pianoforte di Alessio Raffaelli parte – accade in Walking All Alone e The Last Rock'n'Roll Band (la loro R.O.C.K in the U.S.A.) - in serpentine brucianti che rimandano al lavoro prezioso di Bittan nella E Street Band o di Benmont Tench per gli Heartbreakers. Eccellente è anche il lavoro delle due chitarre principali (Semprini + Beppe Ardito).
Miami & The Groovers si fanno fotografare in capannoni di periferia, come certi loro eroi, appendono a un muro il poster di Audrey Hepburn e le dedicano una canzone. Camminano come se fossero dei Brando. Ragazzi che fuori dalla loro finestra vorrebbero vedere il New Jersey. Che non è granchè attraente ma fa battere i loro cuori.
Tra gli ospiti, Alex Valle (dalla band di De Gregori), Heather Horton al violino, Antonio Gramentieri e Riccardo Maffoni.
http://www.miami-groovers.com/

Dopo l'esordio del 2009 (l'e.p. Open 24 hrs), il livornese Carugi ha continuato a coltivare il suo sogno americano, che qui si realizza con un disco che ha la dignità di opere simili concepite da piccoli e grandi songwriters d'oltreoceano, sempre sospesi tra la muscolarità di un rock alla Springsteen e un tratto sonoro più lieve che possiede la fragranza del folk e del country. Here's To The Road sorprende per la maturità della scrittura, che ricorda ma mai ricalca quella dei modelli ai quali questo ragazzo si ispira. Canzoni in un inglese ben scritto e cantato, arrangiamenti anche sofisticati che poggiano molto sulle chitarre acustiche ma che sanno trovare anche, come nella bella Dakota Lights & The Man Who Shot John Lennon, il respiro interessante di certe ballate al pianoforte che i grandi autori U.S.A. spesso si concedono. Il brano in questione è impreziosito dalla voce di Michael McDermott, da Chicago, cantautore molto amato da chi mastica la scena della costa est. Il disco ospita anche, in 32 Springs, il bresciano Riccardo Maffoni, stesse influenze di Carugi ma un percorso che finora, dal Festival di Sanremo al Premio Tenco, l'ha visto cantare prevalentemente in italiano (ma occhio al suo e.p.1977) e i bravi Max Larocca (Cumberland) e Daniele Tenca (lap steel in Every Rain Comes To Wash It All Clean).
www.cesarecarugi.com

C'è una piccola scena di innamorati dell'America dalle nostre parti, si sarà capito. E sono tutti bravi e appassionati. Iniziate da Semprini e Carugi, ne inconterete altri.

domenica 22 aprile 2012

ADDIO LEVON HELM, BENTORNATI COUNTING CROWS

Si viene e si va di umana commedia
che c'è chi la spiega e c'è chi vive e va
si viene e si va comunque
fischiando cantando - (Ligabue)


La morte di Levon Helm - batterista, cantante, mandolinista della Band, uomo che conosceva i mille rivoli dell'American Music, attore - lascia un vuoto enorme. Aveva una tra le più belle voci di tutti i tempi. E poi suonava dietro ai tamburi e ai piatti con tutta l'anima, basta rivedere come teneva il tempo in Mystery Train nel film The Last Waltz diretto da Martin Scorsese. Era quello che ha rimesso e tenuto insieme il gruppo oltre ogni difficoltà, morte o abbandono. Resta ormai così poco di quella meravigliosa storia che è stata la storia di The Band. Quasi nulla. Robbie Robertson, l'autore principale, è sembrato negli ultimi vent'anni molto distante da quanto aveva fatto come leader del gruppo. Richard Manuel morto sucida nel 1986, Richard Danko ucciso dalle droghe e dal suo cuore nel 1999. Garth Hudson aveva lo scorso anno messo insieme una celebrazione tutta canadese del suono del gruppo ma non è figura più defilata, benchè sempre presente nelle attività post-Robertson, compresi i tre dischi pubblicati negli anni Novanta.

Resta poco di The Band ed è così triste perchè quella formazione, con le sue voci, tutte incredibilmente belle, è stata una colonna della musica americana. Quei ragazzi canadesi erano stati – col nome The Hawks - la prima band di Bob Dylan e con lui erano tornati negli anni Settanta per farsi ricordare e riascoltare oggi da quell'inossidabile live che è Before The Flood (vedi foto, da quel tour, con Dylan e Helm che giocano a ping pong). Senza parlare di tutti quei recuperi di cose registrate e rimaste lì che si intitola The Basement Tapes. I ragazzi hanno pubblicato album meravigliosi e scritto canzoni che resteranno eterne: It Makes No Difference, The Weight, Ophelia, Twilight. Quante.


Ricorderò per sempre una sera di quasi vent'anni fa allo Stone Pony di Asbury Park: la mattina avevo comprato a New York la biografia della Band – This Wheel's On Fire - scritta da Helm, così gliela porsi per fargliela autografare, sognavo di incontrarlo da quando avevo acquistato il triplo album The Last Waltz che ero ancora minorenne. Lui e Rick Danko stavano salendo sul tour bus dopo lo show, sudati e felici. Con loro entrava anche Warren Zevon, che aveva aperto la serata. Mi misi a parlare e mi dimenticai anche di chiedergli la firma. Che importava? Avrò sentito le loro canzoni, della Band e di Zevon – Un On Cripple Creek, Acadian Driftwood, The Shape I'm In, The Night They Drove Old Dixie Down, e Mohammed's Radio, Excitable Boy, Werevolwes of London, e altre - un milione di volte.


Mi bastava aver fatto qualche foto durante lo show (una, che ritrae Zevon sul palco con Rick Danko mi è particolarmente cara - ed è qui sopra).
Helm, Danko, Zevon: se ne sono andati tutti e tre. Tre grandissimi artisti.
Ho trovato queste bellissime parole del chitarrista Larry Campbell, collaboratore e grande amico di Helm. E le incollo qui. Tutto vero. Tutto giusto. Se non conoscete la musica di questi artisti cercatela.

“The one guy who can do any form of honest American music with authority. He can do Southern gospel like he grew up in a chuch, blues like he was born on the Delta, rock 'n' roll like he was there at the beginning. He's the Delta of American music".

I Counting Crows sono la nuova Band, si è sempre detto. Nel senso che stavano prendendo il posto che nei Settanta era stato del gruppo composto da Robertson, Helm, Danko, Manuel e Hudson. The Band/Counting Crows: stesso calore, stessa espressività, stessa abilità nel coprire ogni zona del rettangolo di gioco della musica americana. Formazioni "a tutto campo" così ne nascono una ogni cinquant'anni. E' un segno del destino che io mi sia trovato a scrivere del nuovo album dei Counting Crows per un nuovo mensile (lascio l'annuncio ufficiale all'editore) sull'onda della scomparsa del grande Levon Helm, proprio il giorno della brutta notizia, proprio nelle ore in cui tutti venivano a sapere della fine di quell'uomo sensibile e forte che ha tenuto in vita il mito The Band anche se da anni c'era un tumore alla gola a fiaccarlo.


Salutiamo il nuovo album (tutte cover tranne Four White Stallions) dei Counting Crows – Underwater Sunshine (lo pubblica Cooking Vynil/Edel) - in cui il gruppo di Adam Duritz canta Dylan (You Ain't Goin' Nowhere, e la coincidenza è bellissima), i Faces (britannici molto americani) e Gram Parsons (Return Of The Grievous Angel, con un mandolino alla Levon Helm). Se i capolavori di questa formazione restano l'esordio August & Everything After e Hard Candy, questo è un disco assai opportuno che esce nel mese in cui si mette la parola fine alla lunga storia di gruppo di Robertson e compagni.