Chi trova un amico trova un libro. E se gli amici sono due, Gaetano "Blue" Bottazzi e Sergio D'Alesio, i libri raddoppiano.
Le cose che mi
piacciono le tengo insieme, ne faccio marmellata. Specie se hanno un comune denominatore. E ne parlo, per il piacere di diffondere
qualcosa in cui credo.
Lo faccio con i miei
tempi. Ma alla fine il tempo lo trovo. Quelle da recensire sono
parole per la musica, al servizio della passione per la musica. Due
libri. Eccoci qui.
Iniziamo con “Perché
non lo facciamo per la strada?” (Ed.Tip.Le.Co, 2014, 15 euro) di
Blue Bottazzi.
Il secondo sforzo
creativo del buon Bottazzi (giacchè per il primo, “Long Playing”,
che sta per avere un gemellino, un lato B, aprirò presto una
parentesi a parte, a opera conclusa) mi fa venire in mente un disco
che amo molto, di Andrew Gold, un session man californiano di cui
troverete il nome in un sacco di dischi di west coast anni '70,
quelli di Linda Ronstadt compresi. L'album in questione è “What's
wrong with this picture?”, che girava su vinile Asylum Records, roba seria,
roba con un significato. Cosa c'era di strano nella copertina? La
giravi e la rigiravi ed è era tutto a posto, apparentemente. Alla
fine, guardando meglio, ti accorgevi che nel grande soggiorno le cui
vetrate davano forse sul mare di Santa Barbara un paio di oggetti
erano fuori posto: un 45 giri suonava (suonava?) agganciato a un
registratore Revox, e la bobina di quest'ultimo era adagiata,
inutilmente, sul piatto di un giradischi.
Quella confusione
voluta, e annunciata, a me ha sempre fatto pensare che il significato
fosse “la musica trova sempre una sua strada, anche se gli metti
qualche bastone tra le ruote, anche se sposti qualcosa”.
Sulla copertina del bel
libro di Bottazzi, che si fa chiamare Blue per via di Tom Waits e
Rickie Lee Jones, ma questa è un'altra storia, non c'é niente che
non va. Funziona tutto a meraviglia. Molte cose coincidono con
l'iconografia del rock, a volerle leggere. Una coppia (lui ed
Eleonora Bagarotti, altra anima piena di musica) come erano Tom & Rickie su “Blue Valentine”, altro disco marchiato Asylum.
Giubbotti di pelle, il serbatoio di una moto che si intravvede, la t-shirt
bianca che recita, in rosso amore, Triumph, come la Bonneville con
cui nel 1966 Bobby Dylan scivolò per un po' via dalla musica
facendosi male seriamente.
Nel background, mugs,
insegne, forse ferri da lavoro. Per due, quattro ruote, mille sogni.
Una coppia innamorata
che inneggia all'amplesso sull'asfalto? Non proprio. Qui c'è
un'altra citazione, una canzone (quella del titolo del libro) che arriva dal doppio bianco dei Beatles, dalla voce di
un McCartney votato a un blues alla Steppenwolf. Non i Beatles più
popolari, di certo i più intensi e sporchi.
Le 250 pagine
raccolgono in 33 capitoli e 33 decaloghi un bel po' di sensazioni
sparse vergate da chi si sente e si descrive “salvato dal
rock'n'roll”. Sinceri, senza retorica, dunque veri sono gli appunti
del Blue. La confusione regna sovrana, come nella stanza di Andrew
Gold. Ma da quella confusione il lettore, se motivato, si lascia
trasportare con piacere e sicurezza, come fossero i copertoni di una
inglese mid Sixties a incollarti alla strada.
Non aspettatevi una
recensione, dovete leggervelo voi il libro. Io ho preso appunti
sparsi, perché così leggo ormai i libri, tutti i libri, andandomi a
cercare ciò che mi soddisfa in quel momento, per poi tornare giorni
dopo, a curiosare e ascoltare. Si, ascoltare, perché che le abbiate
in testa o che le rimettiate sul piatto per l'occasione, sono le
canzoni le inevitabili compagne di lettura. E le canzoni e i sogni
che si tirano dietro portano via tempo. Questo libro può durarvi
mesi, dunque, come è accaduto a me. Se i vostri ricordi coincidono
poi con gran parte di ciò che trovate scritto da Blue, allora siete
fregati.
Leggi il capitolo sui
riff (da quello di “Whole lotta love” degli Zeppelin a quello di
“Lola” dei Kinks, c'è tutta la gamma rappresentata) e ti metti
davanti allo specchio con la padella. Scorri le pagine di “Beatles
o Rolling Stones?” e riaffiorano i dubbi di sempre: i primi erano
più melodici, i secondi più tosti. Deciso: meglio i secondi. Poi ti
ricordi di “Angie” e “Helter Skelter”. Chi erano quelli
tosti? Vabbè, incartameli tutti e due che ci faccio un bel pò di
chilometri.
Ecco i “doppi dal
vivo” quando i doppi dal vivo erano un punto di arrivo e non di
partenza. Oggi non si nega a nessuno un dischetto da 79 minuti
registrato a un concerto durante il tour del secondo disco. Un tempo,
ai nostri tempi (vero Blue? vero Eleonora?), il doppio dal vivo era
uno dei sogni più selvaggi e proibiti, dunque non arrivava mai, vedi
Bruce al Winterland di San Francisco, oppure si chiamava “Fleetwood
Mac Live”, e i Mac per meritarselo erano dovuti partire
dall'Inghilterra, prendere casa in California, cambiare vita e rifare
i documenti e soprattutto fare “Rumours”, il che non è proprio
cosa da tutti.
Nel capitolo dedicato
alle classiche “quattro facciate registrate dal vivo” si viaggia
che è una bellezza, dalla Royal Albert Hall al Fillmore East, dal
Trobadour sui boulevard californiani al Rainbow delle piogge inglesi.
Portatevi scarpe comode che c'è da pedalare.
C'é un capitolo di
bella sensibilità, dedicato alle parole che un tempo ti si
conficcavano nel cervello, letali come le “silver bullets” di Bob
Seger, proiettili micidiali se stai sotto ai vent'anni. La forza di
quelle parole (da “Perfect day” e “Heroin” di Lou Reed a “New
York City Serenade” del Boss) e il loro contrario, perché ognuno
nelle canzoni ci vede qualcosa di personale, ognuno incolla le
proprie figurine sui volto di Billy o mette il Lambrusco o Villa
Borghese al posto della Sangria che qualcuno beve a Central Park.
Canzoni come scatole vuote, talvolta, pronte per essere riempite da
noi, e questo senso di intercambiabilità dei sentimenti l'autore lo
ha centrato alla perfezione.
Le canzoni sono anche
questo: satelliti per l'amore o un navigatore satellitare che
impostiamo noi.
Potrei recitarvelo
tutto, “Perché non lo facciamo per la strada?”, ma c'é D'Alesio
con le sue camicie colorate che sgomita. Chiudo ricordandovi di
scendere a comprare un pacchetto di C90 perché di suggerimenti per
farvi qualche cassettina ce ne sono parecchi, e tutti validi, a firma
Bottazzi.
Anzi, no, un momento:
chiudo con una domanda all'autore, perché fa un po' figo e dà
l'idea che il libro lo hai letto davvero:
- capitolo “Questioni
di etichetta”, pagina 114, le “10 copertine più belle del rock”:
mi metti “Amorica” dei Black Crowes e il suo triangolino e ti
dimentichi “Late for the sky” di Jackson Browne con quel cielo e
quelle luci alla Magritte? Ma un pelo di “f” tira davvero più
della Chevrolet di “The road and the sky”? Siamo sicuri?
Si scherza. Lavoro
egregio, compare.
“Eagles: la leggenda
del country-rock” (Aerostella, 2014, 16 euro) chi poteva firmarlo
se non Sergio D'Alesio, uno che di California parlava quando la
California voleva dire davvero “terra promessa” e non Gangsta
Rap, e quando fratello si scriveva brother e non brotha e stava per
“brother Jackson”. Punti di vista, diversi modi di sentire la
musica. Diversità, non meglio o peggio.
A noi piace la west
coast delle chitarre e delle armonie vocali, dunque tutta quella roba
lì che oggi è un po' scolorita, sfumata, ma rivive nei ricordi,
nella voglia di raccontare ancora e in qualche disco azzeccato di
qualche vecchio eroe che non ha mai smarrito il talento e la
credibilità: è il caso di Jackson Browne e del suo ultimo “Standing
in the breach”, sospeso come sempre tra la politica del mondo e
quella dei sentimenti più intimi.
Quando gli Eagles
firmarono per la Asylum di David Geffen vennero presto sorretti –
anzi, portati a volare - da una canzone, “Take it easy”, un
cerchio che Browne aveva abbozzato ma che per trovare la sua
quadratura aveva dovuto contare sull'intervento di Glenn Frey, uno
che arrivava da Detroit, ovvero dalla casa del rock duro e della
Motown, ma che insieme a Don Henley avrebbe tempestato di capolavori
il firmamento del Golden State, lasciando una scia che avrebbe
prodotto emuli e seguaci.
Henley e Frey sono le
fondamenta degli Eagles, ovvero di tutto ciò che si estende da “Take
it easy” all'ultimo tour con il redivivo Bernie Leadon che abbiamo
visto quest'anno anche in Europa. Oltre quarant'anni di musica che
hanno dipinto il lifestyle spesso eccessivo di una città dispersiva
come Los Angeles negli anni in cui questa era la capitale d'America
di tutte le musiche. Tanto attraente quanto fagocitante la Città
degli Angeli, a tal punto che chi arrivava lì diventava californiano
per sempre, che fosse il britannico Graham Nash o Joni Mitchell da
Alberta, Canada. Pure The Band, giovanotti canadesi che servirono
Dylan e tanta tradizione americana, restano consegnati alla memoria
collettiva nello storico scatolone del Winterland, a San Francisco,
teatro del loro “ultimo valzer”, negli stessi anni in cui
Springsteen conquistava definitivamente da quel palco la California
con la E Street Band.
“Siamo gli Eagles, da
Los Angeles”, gridavano orgogliosi presentandosi al loro pubblico i
quattro che scrissero le prime pagine di una storia leggendaria;
eppure Randy Meisner arrivava dal Colorado e dai Poco, Bernie Leadon
dal Minnesota, Don Henley portava la sua voce soul dal Texas e di
Frey si è detto. Tutto spazzato via, come le armonie vocali se
travolte dalla raucedine, tutti californiani, per convenzione e per
vocazione.
Naturalmente sappiamo,
come scrive D'Alesio, che c'erano stati “i rivoluzionari anni
Sessanta, durante l'impero folk-rock dei Byrds contrapposto alla
ipnotica psichedelia dei Doors e dei Quicksilver Messenger Service”,
ma servivano dei continuatori in grado di essere anche più popolari
e stabili di McGuinn e soci, che nei primi Settanta, quando gli
Eagles lucidavano ancora il piumaggio, avevano già dato il meglio ed
erano in fase calante, con un organico che aveva già perso Gene
Clark, Chris Hillman, David Crosby e Gram Parsons.
Bernie Leadon, che
arrivava dai Flying Burrito Brothers di Gram Parsons, una costola proprio dei Byrds,
dichiarò in quei giorni a Rolling Stone “tutti sembrano impazziti
e ci corteggiano dicendo che diventeremo più grandi di CSN&Y”.
Queste sono le basi su
cui D'Alesio imposta il proprio volo su una storia che possiede forza
e romanticismo, dramma e gelosie, ma che è il contenitore che
accoglie tutti i pezzi di un enorme puzzle iniziato, come visto, con
leggende, gli Eagles, nate da altre leggende. Quando morì Parsons,
distrutto dagli eccessi e dalle droghe, Leadon scrisse per lui “My
man” , e la canzone finì sul terzo disco della band, “On the
border”, come un dolce e amaro epitaffio cantato meravigliosamente
a quattro voci.
Da lì sarebbero
arrivati “Hotel California”, il successo planetario, le liti, gli
innesti, lo scioglimento e la pace sempre a denti stretti e con
regole ferree per regolare gli enormi flussi di denaro.
Tra musica e interessi
se ne sono andati, da “The Long Run”, che nel 1980 chiuse la
prima luminosa fase del gruppo, ben trentacinque anni vissuti dal
pubblico con un instancabile senso di gratitudine stampato sul viso
ma anche con l'esasperazione di chi attende qualcosa di nuovo che
arriva col contagocce. Il sottoscritto scrisse nel 1995 la prefazione
all'edizione italiana di “The long run – the history of the
Eagles” di Marc Shapiro. Era appena uscito “Hell Freezes over”,
un live con quattro inediti, i primi che si ascoltvano dal gruppo
(nel frattempo lievitato in tanti anni grazie alle presenze di Tim Schmith, Joe
Walsh e Don Felder) proprio dai tempi di “The long run”.
Nell'aria c'era una certa eccitazione, sembrava il preludio a quella
costanza che tutti si aspettavano. E costanza fu, ma solo di
apparizioni live buone per vendere il back catalogue e per rinforzare
le carriere soliste (Don Henley, il migliore, con successi
cristallini come “The boys of summer” e “The end of the
innocence”). L'unico vero disco interamente composto da canzoni
nuove resta per gli Eagles “Long road out of Eden” del 2007,
giunto vent'otto anni dopo “The long run”. Di lunghe, lunghissime
corse parliamo qui, e non servono metafore. E' la realtà che ha
circondato la band nata davanti al Pacifico e nei deserti lì vicino.
Una realtà, quella
raccontata, fatta di una tenuta artistica ancora validissima ma anche
di una capacità organizzativa e manageriale sopra la media. Brani
dal suono contemporaneo e anche strategie per accarezzare la memoria
di chi è rimasto da allora; ecco spiegata “How long”, ripescata
dal repertorio del vecchio complice John David Souther e per questo affine
agli album dei primi anni, quelli che come etichetta avevano il cielo
della Asylum, con quel marchio che ritorna nel nostro racconto sui
due libri scelti per voi e che crea per questo un sottile legame con
Bottazzi, Waits e anche quella “Ol'55” che proprio Waits riprese
dagli Eagles, allora compagni di etichetta.
Il resto, tutto il
resto, scopritelo nelle 150 pagine in cui D'Alesio riassume
quarant'anni e più di storia della band senza fermarsi all'attività
di gruppo ma andando oltre, fornendo il quadro più aggiornato delle
vicende soliste di tutti i componenti transitati nell'organico dal
1972 al 2014.
Niente male.
Due libri, due amici.
Alla prossima canzone.