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Ryan Adams, 34 anni, qualche discreto album e nessun capolavoro alle spalle, ha avvisato i fan dal suo blog: “lascio la musica, potrei tornare, ma non ne sono affatto certo”. Bruce Springsteen, 60 anni dietro l’angolo, qualche discreto album e diversi capolavori, pubblica il suo ventiquattresimo disco non senza fiatone ma è qui, a giocarsela su quel terreno che è suo da una quarantina d’anni.
Questo non è un paragone tra il Boss e il giovane Ryan (non Bryan), al quale va dato il merito di aver scritto buone canzoni e di aver provato tutte, ma proprio tutte le strade per realizzare un album da vero Boss: é un modo per spiegare quanto sia difficile, nel mondo della musica, restare competitivi a lungo.
A voler tirare in ballo due grandi, equiparabili a Springsteen per statura artistica, si può evidenziare come sia Bob Dylan che Neil Young abbiano alle spalle paurose oscillazioni. Da un trentennio almeno, quando si parla di album registrati in studio per loro si alternano segnali di giubilo, il pollice verso, entusiasmi e indifferenza: accade di tutto, ormai è la normalità. La normalità, forse, per due artisti che ci hanno preparati a tutto, saltando tra divagazioni elettroniche (lo Young di “Trans”) e incolori album di cover (Bob, nei giorni di “Self Portrait” e “Dylan”), non per Bruce Springsteen, che come i colleghi tiene vivo il suo mito suonando sui palchi di tutto il mondo ormai quasi incessantemente ma che a differenza loro finisce sempre sotto i riflettori quando pubblica nuove canzoni.
Da noi in Italia, addirittura, arriva puntualmente, da vent'anni, al primo posto della classifica di vendita degli album.
Se Springsteen lascia ancora il segno ad ogni pubblicazione è per effetto della sua straordinaria capacità di rimanere in gara, al centro di quella competizione artistica che molti suoi coetanei illustri hanno abbandonato da tempo.
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Quando sembrava voler affondare nuovamente la mano negli archivi, offrendo al suo pubblico nel trentennale di “Darkness On The Edge Of Town” (1978) un’edizione rimasterizzata di uno dei suoi dischi più belli (potenziata da un concerto e da un documentario già registrato, con Patti Smith a dire la sua su “Because The Night”), è arrivato l’annuncio di un nuovo disco, nuovo a metà, a ben vedere, perché presentato esplicitamente come una appendice di “Magic”.
Diciamolo subito: “Working On A Dream” è troppo complesso per finire da subito liquidato come l’appendice di qualcosa. Non è un capolavoro, ma un disco da attraversare con cognizione di causa e una giusta dose di rispetto.
Certo, presentarsi con un fumetto anziché una copertina e partire con un pezzo da otto minuti è quantomeno azzardato. Della copertina rispondano l’artista e il suo staff, gli stessi che approvarono l’indimenticabile scatto fotografico usato per “Born To Run” e che rifletterono per mesi proprio sulla grafica di “Darkness”. Sul pezzo non si apra un processo: poche volte Springsteen ha rasentato o superato quella misura (“Incident On 57th Street”, “New York City Serenade”, “Jungleland”, “Backstreets”, “Drive All Night”: parliamone!) e nemmeno “Stairway To Heaven” o “Hotel California” durano tanto, tuttavia “Outlaw Pete” è composizione rock, genuina e roots abbastanza da non far sospettare intenzioni lucrative. Poteva risolversi prima ma ha il merito di concludersi senza che gli occhi siano caduti sull’orologio, e poi sembra coincidere con le intenzioni di due Springsteen al di sopra di ogni sospetto: quello del pre-“Greetings”, che scriveva storie di pistole e malaffare (“He’s Guilty”, “The Ballad Of Jesse James”), e quello delle “Seeger Sessions” che ha nuovamente abbracciato il mondo dei fuorilegge (“John Henry”). Assolta a fatica, ma il tempo e il palco, se Springsteen deciderà di portarsela in tour, le faranno del bene.
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Bruce non è tipo da cadute verticali. Ha lasciato perplessi ma mai sconcertati. Ha pubblicato dischi che potevano essere più concisi (i due del 1992, dai quali poteva trarne uno potenzialmente bellissimo, da metterci la mano sul fuoco; un album che avrebbe reso ancora di più se fosse stato suonato dalla E Street Band e non da musicisti di talento chiamati a percorrerne il solco) ma mai ha veramente tradito le aspettative dei suoi fan.
Oggi c’è da seguirlo nella sua evoluzione e nella sua lecita curiosità verso ciò che non ha fatto prima d’ora, c’è dunque da esplorare con affetto e interesse la strada che Springsteen è libero di permettersi.
“Thunder Road” su disco non la ritroveremo più? Pazienza, si era capito da un pezzo. Quando si stacca dalle assi del palco, dove tutto continua a funzionare a meraviglia, l’uomo di “Born To Run” cerca un’altra dimensione. È meno terreno, toglie il freno a mano all’immaginazione. E diventa più poetico. Osa. Sogna. Questa è la chiave di lettura per godersi in serenità il sedicesimo album in studio di un uomo che a trentasette anni dal suo primo disco è ancora oggetto di studio e accorate discussioni.
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Fresco di Golden Globe (per “The Wrestler”, dal film con Mickey Rourke, bonus track ma punto più ispirato della raccolta), Bruce si presenta sotto un cielo di stelle che sembrano porporina. La giacca l’ha presa dal guardaroba che nemmeno Little Steven usa più. Tra i capelli, un riflesso biondiccio innaturale. Dietro c’è la luna. D’accordo, siamo nel limbo tra magic e dream eppure si poteva essere più sobri nel raccontarlo.
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Va detto però che preso in mano e osservato da vicino, soprattutto nella sua versione de-luxe, che è più ampia, l’oggetto “Working On A Dream” smorza lievemente la diffidenza verso l’impasto cromatico della copertina e lo stile scelto per illustrare questo viaggio nel pop di un consolidato boss del rock.
Subito ci investe come già detto il brano di apertura e sono otto minuti da prendere o lasciare, un corpo quasi estraneo che tuttavia – e qui sarà necessaria un’analisi molto più approfondita, prevista anche per il resto dei brani (prossimamente su questo blog) – attraversa più la vita stessa di Springsteen che quella del precoce pistolero qui cantato. Un passo dopo "Outlaw Pete" arrivano “My Lucky Day” (media statura, da quinto disco di “Tracks”) e “Working On A Dream” (rinfrescante fischiettata pro Obama in stile Roy Orbison voltata a guardare quei 60 – dei Kennedy, di Pete Seeger e di Martin Luther King – per l’America mai più tornati), e il fatto che sembrino di seconda mano, ovvero che siano state offerte al pubblico in più modi prima dell’uscita ufficiale, smorza un po' la nostra curiosità.
Anche qui il tempo sarà galantuomo e consentirà alle due canzoni di finire riassorbite dall’album che le ospita dopo essere state veloci e improbabili singoli online (ma perchè poi chiamarli singoli, ormai sono fugaci apparizioni da rete, anticipazioni elettroniche senza più cuore nè copertina).
E’ quando si giunge a “Queen Of The Supermarket” – incedere classico, pianoforte e glockenspiel, tenerezze da E Street Band di un tempo e complesse elaborazioni vocali – che scendono in campo, col motore del disco già caldo, tutti gli elementi che divideranno il popolo springsteeniano. Si apre qui un mondo di non facili compromessi tra un deciso sapore rock (marcatamente alla Tom Petty quello di “What Love Can Do”, con cori in stile Byrds che affiorano anche altrove) e un rischioso
pastiche pop con la bussola che sterza verso la California dei surf incrociando abbastanza spesso certe orchestrazioni marcatissime che sono sempre state una prerogativa dei gruppi anni Sessanta (ecco il vero riferimento di questo Springsteen anni Duemila che gioca a tuffarsi nei ricordi).
Altra spiegazione è che al contrario di “The Rising”, che trasudava smarrimento e cordoglio, questo lavoro presenta una maggioranza di brani che invitano ad accettare la vita per quella che è, celebrandola con un sorriso. È un disco felice che indugia sull’amore. La politica è una eco lontana, è lambita, forse volutamente silenziata.
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L’impasto creato da Brendan O’Brien (che sembra avere esaurito un ciclo) è avvincente ma può stordire. L’orecchio attento ci scoverà i Beau Brummels, i Left Banke, i Monkees e i Kinks. La sponda dei diffidenti e dei meno riflessivi avanzerà il sospetto che questa volta, partendo dai Beach Boys come accadde in “Girls In Their Summer Clothes”, si sia presa la deriva che porta a Jeff Lynne. In “This Life” (e non solo) c’è la E Street Light Orchestra? Nessun problema: è bellissima, quel prologo alla Bacharach è un incanto imprevedibile che abbracciamo con ricambiato incanto, anche perché con la frase «a blackness then the light of a million stars» («buio pesto, poi la luce di milioni di stelle») ben spiega la copertina, il mood dell’autore, il senso del disco e le aspettative del mondo dopo Obama.
Intromissioni d’archi alla Beatles e chitarre che fanno sognare appaiono anche in “Kingdom Of Days” (ampollosa ma convincente e amabile almeno quanto “This Life”) e “Surprise, Surprise” (che a un certo punto cita “You Got It” di Orbison: quindi tutto torna, anche Lynne). Ormai libero dall’obbligo di dover sempre offrire un concept o di cercare un suono unitario, l’autore svolazza, ondivagante e sovente con approccio vocale vagamente tenorile, tra i “singoli” della sua adolescenza e tra i tanti Bruce che ci hanno intrattenuti negli ultimi tempi. Ne raccogliamo in frutto anche l’elegante e composta “Life Itself”, il blues tutto jersey devil di “Good Eye” e l’ottimismo country di “Tomorrow Never Knows”. Anche quando accarezza i ricordi nella bella, acustica e dolente “The Last Carnival” (due funamboli, due polsi che a un certo punto non si trovano più, due amici per la vita separati dalla morte: Bruce e Danny Federici) è uno Springsteen tutto sommato normale, colto qualche centimetro sotto le aspettative (ma due sopra la media dei suoi colleghi coetanei).
L’errore sarebbe volerlo sempre speciale, chiedergli di restituire a noi e a lui stesso l’età che tutti avevamo ai tempi di The River.
Quella è cosa che nessun musicista sa fare.
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