mercoledì 27 gennaio 2016

STEVE VAN ZANDT
discografia consigliata 1976-2016
40 anni di produzioni

Questa vuole essere una lettura utile ad accompagnare la mia lunga intervista a Van Zandt che Classic Rock pubblica sul numero di Febbraio (il 39, ora in edicola). 

La foto di Van Zandt pubblicata qui sotto e le altre con Darlene Love che concludono la discografia mi sono state gentilmente concesse dall'artista e sono di Josh Goleman.

Buona lettura!





Southside Johnny & the Asbury Jukes - I DON'T WANT TO GO HOME (1976)

E' l'anno dopo Born to Run. La voce di Johnny Lyon, all'esordio, è unica, le canzoni sono gioielli e non solo quando le firma Springsteen (You mean so much to me, un duetto Lyon/Ronnie Spector, e The Fever, gigantesca). Van Zandt produce magistralmente, scrive l'epica title-track e nelle note il Boss lo definisce "soul man extraordinaire". Steve promosso sul campo.

Southside Johnny & the Asbury Jukes - THIS TIME IT'S FOR REAL (1977)

Sezione fiati imponente (in parte la ritroveremo con Springsteen undici anni dopo, in tour), il miglior campionario di special guest possibili in campo vocal groups (dai Coasters ai Five Satins, ci sono tutti), quando Van Zandt e Springsteen scrivono insieme partono i fuochi d'artificio in tutto il New Jersey. Altro voto altissimo.


La copertina del singolo "Say goodbye to Hollywood"
(Van Zandt è al centro, in piedi. Seduti, Springsteen e Ronnie Spector)


Ronnie Spector and the E Street Band - SAY GOODBYE TO HOLLYWOOD (1977) 45 giri

Con un passato passato glorioso come il suo nelle Ronettes, Ronnie Spector, ex moglie di Phil,  avrebbe meritato di più. Questa è la cosa più memorabile del suo percorso solista. Ci si ferma a un singolo, per vari problemi. Un'occasione simile non tornerà più.  Arranged and produced by Sugar Miami Steve, dice la copertina di questo introvabile vinile.

Southside Johnny & the Asbury Jukes - HEARTS OF STONE (1978)

Disco che completa una trilogia imperdibile (i primi tre dischi di Southside Johnny). Basterebbero la title-track (proposta da Springsteen in TRACKS solo nel 1998) e Talk to me (in THE PROMISE del 2010) a renderlo indispensabile. Invece è tutto da 9 in pagella. Finisce qui il rapporto a tempo pieno di Van Zandt con i ragazzacci dei Jukes.


Gary US Bonds e la E Street Band

Gary U.S. Bonds - DEDICATION (1981) / ON THE LINE (1982)

Vanno cercati in cd versione "compatta" (un solo disco a contenere i due vinili di un tempo) questi preziosi titoli di Gary Anderson, l'uomo di Quarter to three che a un certo punto, nel post-THE RIVER, incontra Springsteen e la E Street Band e ricomincia la vita. Van Zandt e Bruce producono insieme canzoni loro ma anche dei Beatles (It's only love), di Dylan (From a Buick 6) e di Jackson Browne (splendida la rilettura soul di The Pretender).

Little Steven & the Disciples of Soul - MEN WITHOUT WOMEN (1982)

Cinque album per Van Zandt tra il 1982 e il 1999. Questo ha le migliori canzoni (su tutte Lyin' in a bed of fire e Until the good is gone ma la track list è perfetta), dei fiati poderosi e una produzione che esalta il meglio delle capacità di Van Zandt.  Arriveranno sonorità più dure in VOICE OF AMERICA, poi il funk e una scrittura meno efficace a spegnere un passo dopo l'altro una carriera da solista che poteva dare di più ma che non è affatto trascurabile, come prova GREATEST HITS, pubblicato nel 1999 (a ridosso del Reunion Tour di Springsteen con la E Street Band) e contenente il meglio dei primi tre album, tutti su etichetta Emi.

Artisti Vari - SUN CITY (1985)

Van Zandt mette insieme proditoriamente tanti grandi artisti (da Bono a Springsteen, da Jimmy Cliff a Lou Reed) e lancia un j'accuse contro la politica sudafricana che tollera l'Apartheid. Questo coro soul-funky e mille altri sono quelli che porteranno Nelson Mandela verso la libertà, la presidenza del paese e il Nobel per la pace.  L'album contiene, oltre alla canzone del titolo, popolarissima in quegli anni, altre sei tracce, nelle quali spiccano Peter Gabriel (No more apartheid) e Bono con Keith Richards e Ron Wood (l'acustica, bluesy Silver and Gold).

Springsteen, Eddie Kendrix e Jimmy Ruffin dei Temptations
sul set del videclip realizzato per "Sun City" 

Lone Justice - SHELTER (1986)

Dopo avergli dato Sweet sweet baby, presente nell'album di esordio della band di Los Angeles, Van Zandt offre ai Lone Justice di Maria McKee il suo tocco (con l'aiuto - una garanzia - di  Jimmy Iovine) e vi aggiunge la title-track. Il crossover tra certe sue vecchie teorie e la voglia di suonare nuovo che Van Zandt ha non giovano più di tanto al gruppo. Il disco è energico e contiene buoni brani (I found love, Wheels) ma è un canto del cigno. La band si ferma lì e il suo chitarrista Shane Fontayne accompagnerà Springsteen nel tour 1992-93, dopodiché torneranno Van Zandt e la E Street Band.

Southside Johnny & the Asbury Jukes - BETTER DAYS (1991)

Tredici anni dopo THIS TIME IT'S FOR REAL si rinnova il sodalizio tra Johnny e Steve, i vecchi amici. E torna la magia di un suono tutto fiati e soul bianco che si era andato un po' smarrendo nella discografia dei Jukes.  Tappeto rosso per la serie A del Nel Jersey, arrivano Jon Bon Jovi e Bruce Springsteen, e It's been a long time è un nuovo inno all'amicizia, come lo era stato I don't want to go home. Ovviamente con BETTER DAYS il cantante di Neptune, NJ tocca nuovamente i vertici della propria arte.

Bruce Springsteen, Southside Johnny e Steve Van Zandt
fotografati allo Stone Pony di Asbury Park durante la registrazione
dello speciale live in supporto dell'album "Better Days".

Arc Angels - ARC ANGELS (1992)

Due grandi chitarristi, Doyle Bramhall II e Charlie Sexton, più la sezione ritmica del compianto Stevie Ray Vaughn chiamano Van Zandt a rendere ancora più robusto e un po' soul il loro blues imbevuto di southern rock. Steve gioca in trasferta ma tiene benissimo il campo. Disco anomalo nel suo percorso ma molto riuscito.





AA.VV. - THE SOPRANOS (music from the HBO original series) (2001)

Segue di due anni il volume 1 ed è più promettente. Promette che presto (ma sono intanto passati quindici anni) i misteriosi Lost Boys di Affection faranno un full album (vedi intervista). Promette e mantiene nel dirci che Van Zandt ha gusto, perché affianca Otis Redding ai Rolling Stones, Dylan a Van Morrison. E c'é anche Jovanotti con Piove. Compilation molto interessante.

Stevie Van Zandt - LILYHAMMER THE SCORE (2015)


50 tracce in vendita solo sul mercato digitale. Sono la colonna sonora delle tre stagioni di Lilyhammer, serie tv norvegese in cui Van Zandt oltre a produrre veste i panni del boss Giuseppe Tagliano. Tra brani d'atmosfera (prevalentemente jazz orchestrale) e slanci da crooner (All of me, My kind of town), Steve si traveste ora da Sinatra ora da Dave Brubeck con esiti accettabili. Non lascia a casa la chitarra e spuntano ogni tanto del rock'n'roll, psichedelia e il Salsa.


Last but not least...

Questa lunga analisi si conclude con una mia recensione del recente disco di Darlene Love apparsa sul sito musicale Distorsioni.net.
Per ovvii motivi ha un respiro più ampio rispetto alle schede stringate riservate agli altri album.
E' il prodotto più recente di Van Zandt e raccoglie tutta la sua filosofia, di musicista e produttore ed anche del music lover che lui stesso racconta di essere nell'intervista a cui si fa riferimento nella parte alta di questo articolo.




Nella foto: Van Zandt, Jake Clemons e Darlene Love in studio durante le registrazioni di Introducing.


Darlene love -  INTRODUCING (2015)

Quando si tratta di parlare di quell’ampio ponte che collega tra loro il suono anni ‘50/’60 di Phil Spector e l’Asbury Sound creato alla metà degli anni ’70 dalle gang di Springsteen e Southside Johnny c’è solo uno che può aprire bocca e mettere mano al banco di registrazione: questo è Little Steven o Steve Van Zandt, chiamatelo come preferite. Lui che fu complice e in qualche modo capobanda sia in Born to Run che in Hearts of Stone (punte più luminose del suono di quel lungomare del North Jersey) ha accolto, coccolato, riverito Darlene Love, settantaquattrenne con la verve di un ragazzina che i vecchi aficionados del rock’n’roll ricorderanno essere stata la voce leader delle Crystals e di Bob B. Soxx & the Blue Jeans, come dire anni splendenti per i Girls Group (con loro vanno citate anche le Ronettes e le Chiffons). Bruce, che cantava le sue canzoni con la E Street Band (“And then he kissed me” faceva capolino proprio nel tour di Born to run), l’ha ospitata sul suo palco più volte, compresa la serata al Madison Square Garden in cui vennero celebrati nel 2009 i 25 anni della Rock’n’roll Hall of Fame. 
Quella sera fu festa, e la E Street Band si divertì a replicare con lei quei successi di quando tutti erano ragazzi e dedicavano forse più ore al surf che agli strumenti musicali.

Darlene Love accompagnata dalla e Street Band e da alcuni
dei suoi coristi al Madison Square Garden di New York.
Introducing Darlene Love è un titolo spiritoso perché si usava ai tempi del r’n’r per introdurre gli sconosciuti sulle scene, roba da esordienti dunque, ma poi passi all’ascolto e le cose si fanno serie anche se molto, molto divertenti. Il lavoro svolto da Van Zandt ha dell’incredibile. Ha preso per mano Darlene facendole trovare canzoni scritte per lei dall’amico Boss (“Night closing in” è un colpo al cuore, è The River che incontra Willy de Ville), da Joan Jett (“Little liar”), da Costello (“Forbidden nights”, anche un video che sa di saturday at the beach) e dall’ex Four Non Blondes Linda Perry (oggi migliore firma nei dischi di Pink, qui autrice della superba “Love kept us foolin’ around”, con un arrangiamento fiati che ricorda tremendamente i Jukes). Tutto si esprime nella ridondanza (voluta) che ricorda le opere di Spector quanto l’esuberanza di alcuni momenti del recente Wrecking Ball di Springsteen (“Just another lonely mile”, da lui scritta, potrebbe essere proprio un’outtake da quel disco).

Un vecchio moderno che non dimentica ma non annoia. Anzi. C’è poi sempre Steven a dare il proprio tocco personale al tutto. La chitarra e i fiati in “Little Liar” sono il suo marchio di fabbrica, e due brani sono proprio il frutto della sua penna: “Among the believers” era sul suo Voice of America (1983) e “Last time” l’aveva composta lui per Gary U.S. Bonds ai tempi di un altro album, On the Line (1982), che come questo santificava il rock’n’roll della giovinezza attraverso la voce di un grande di quegli anni.
Operazione per appassionati del genere ed anche per curiosi di passaggio. Dove c’è una ruota panoramica che gira e un rollercoaster che produce rumore di ferraglia questa musica ci sta a pennello. Darlene Love vi è stata “presentata”, ora tocca a voi.


© 2016, Ermanno Labianca

giovedì 5 febbraio 2015

DYLAN vs SINATRA – E PIOVE SUL RING






Non riesco ad avere un pensiero stabile su BobDylanCantaSinatra.
Per cinque minuti lo amo, gli altri cinque lo vorrei strozzare. E via cosi, in un faticoso loop. Non mi riconosco più. It ain't me, babe.

Intenso, noioso, commovente, noioso, familiare, noioso. Pedal steel, noia, spazzole, gioia. E' un'altalena, ti ci devi abituare. Standard e jazz ribolliti nel country. The Voice vs DylanVoice: un ring inedito. Ombre nella notte, notte buia. Qui il sole non esce mai.
Dylan sembra riflettere dietro le sbarre, prigioniero di una nuova idea. E del suo papillon messo per rispetto. Altro non mi viene. C'é del bello, e me lo tengo stretto.

Ma se Highway 61 revisited, Blood on the tracks, Desire, Oh mercy e Time out of mind erano navi che facevano una grande schiuma, e onde fragorose, questo è un canottino su cui reggersi forte in mezzo a tanto sbattere. Amo Dylan e lo detesto. Lo detesto amandolo. Nessuno mi mette alle corde e mi anestetizza come lui.
Nobody feels any pain. Tonight as I stand inside the rain.

mercoledì 7 gennaio 2015

PINO DANIELE - A CALDO, E QUALCHE ORA DOPO

5 gennaio 2015, a mezzogiorno

Non bastano le parole ad esprimere il dolore per la morte di Pino Daniele. I ricordi sono tanti. Giorni giovani di grandi scoperte, di grandi canzoni, di tour visti che erano poco glamour e tanta sostanza, quando Pino Daniele imbracciava una Gibson nera e indossava maglioni di lana a trecce. Poi tantissima vita lavorativa, di discografia e di studi televisivi, di altre canzoni, di impuntature e suoi modi bruschi, di amici che erano con te proprio quella certa sera dietro alle telecamere che inquadravano Pino Daniele e che non ci sono più. Di migliori anni e di anni migliori. Di quando Pino, Fiorella, Francesco e Ron provavano in un capannone alle porte di Roma e si facevano le foto che sarebbero servite per il tour a 4 e tu col cavolo che hai chiesto al fotografo quello scatto a 5, col fondale giusto e le luci belle, che ti sarebbe rimasto per la vita e che oggi ti riempirebbe il cuore. Come quello che non facesti con Dylan o con Rod Stewart. Ma sono i ricordi e il suono irripetibile di una chitarra, non le foto, che restano con te in eterno. E Pino Daniele, con quel modo di parlare, con la sua Napoli, con quella strafottenza e indolenza così diverse dalla sua musica, con le sue composizioni bellissime è un pezzo, uno dei tanti pezzi della mia vita.






Ora metto da parte lo scivolone grossolano di qualche canzone malriuscita e il poco degli ultimi anni messo a confronto col tantissimo dei primi, perche' c'e' un tempo per i capolavori e un tempo per tutto il resto, piuttosto penso a Pino Daniele e a Troisi insieme e rabbrividisco osservando il vuoto che lasciano dietro. Al nulla che si è accomodato su quelle loro sedie. E spero tanto che ora la peggiore televisione e la peggiore rappresentanza della nostra musica non si coalizzino per tormentarci con inutili brutture. Tanto il bello c'è stato, Pino il suo "Nero a metà 2.0" se l'è bello che fatto, i 4 di cui sopra hanno già cantato insieme, Dalla non può esprimersi e Troisi neppure. Francesco De Gregori non ha cantato in pubblico per Lucio e non lo farà per Pino Daniele. Soffriamo con decoro, risparmiateci se potete le urla di quattro nuove divette della canzone e di qualche band melodrammatica. Ce la possiamo fare?



5 gennaio 2015 , a mezzanotte

E' tutto il giorno che leggo cose su Pino Daniele. A casa, in metropolitana, in giro per strada non ho potuto fare a meno di rincorrere i pensieri e i ricordi degli altri. Mi ha fatto stare bene, mi serviva. Non è, come ha scritto qualcuno, l'atteggiamento di chi guarda un incidente stradale e fa il curioso al bordi della strada: è voglia pura di capire cosa scorre nelle vene degli altri, di sentire in che modo quelle canzoni hanno dato felicità agli altri, se tutti provavano e provano quello che provi tu. Il potere della musica è questo. Lo provo mentre riascolto il secondo album di Pino Daniele e lui si fa la barba.





Ho letto commenti di gente comune, post e twit di altri cantanti e star varie. Mi colpisce più di ogni altra cosa la voglia trasversale di lasciare un pensiero, di condividere qualcosa, di ripercorrere un proprio pezzo di vita. Un sentimento collettivo talmente bello e ampio io non lo ricordo, in epoca di social network, per altri. Per Dalla, altro grandissimo, immenso e immortale protagonista della musica, il dolore è stato ampissimo ma non si è manifestato allo stesso modo, almeno questo è il mio ricordo. Battisti e De Andrè, amatissimi, non hanno potuto godere dell'intervento a caldo del popolo della rete. A differenza di quei colleghi, Pino Daniele non è partito dagli anni Sessanta ma dai tardi Settanta, e questo fa si che il ricordo di "quel" primo disco, di "quel" primo concerto, di "quella" prima sera a sciogliere i nodi di quel curioso mix di italiano e napoletano siano patrimonio ancora fresco dei cinquantenni o giù di lì, che sono il vero motore della nostalgia che pervade un bel po' il mezzo, il vero alimento per quella bestia incontrollabile che è la malinconia mista a rimpianto. Io credo che i trentenni abbiano raccolto e magari amato Pino Daniele senza essere stati lì quando usciva "Nero a metà", e che i sessantacinque/settantenni di oggi, i quali avevano allora l'età giusta per apprezzare e godere quella musica adesso non abbiano tutta quella voglia di prendersela col mondo. O forse si, e allora ...welcome on board.
Ma quelli veramente fregati, quelli che ancora masticano amaro pensando alle cose che non vanno e a come migliorarle, quelli che hanno figli ancora abbastanza piccoli per i quali preoccuparsi e immaginare un futuro, sono i nati tra il '57 e il '69, popolo dei non ancora vinti, gente che non riesce a smettere di sentirsi attaccata alla propria gioventù e che un pò rifiuta i segni del tempo. Sono quelli che - se appassionati veri di musica - alimentano il mercato del vinile che rinasce, e si aggrappano a Facebook per rimettere insieme il proprio passato e non perderlo.





La morte di uno che negli anni di piombo cantava "Nun ce scassat o cazz" e "Chill e nu buono guaglione" è una cosa tosta per quella generazione. Non era De Andrè, ma provava a dire cose giuste e di rottura in maniera semplice e diretta. Pino Daniele ha creato musica nuova e l'ha contaminata, di blues, di sudamerica e maghreb e di tanto altro. Ha fatto un lavoro egregio, aggregante. Credo sia l'artista italiano che vanta più collaborazioni: un mare, tra Italia e mondo. E di aggregazione parlano le tante testimonianze. Ho visto foto su palco con Laura Pausini e Loredana Errore (per dire: la star e la giovane star di passaggio), foto private con Claudio Baglioni e Mango, foto in studio con Antonacci e foto offstage con Irene Grandi. Tutti hanno voluto dire che c'erano, quel dato giorno, con Pino, e che con lui hanno fatto qualcosa. Raiz, Raf, Silvestri, Jovanotti, Venditti, Tiromancino, i manager, i giornalisti, i discografici, suoi e non, i radiofonici, gli uffici stampa, gli appassionati, i negozianti, i musicisti centrali del mondo pop e anche quelli laterali, che suonano nei bar e che proprio oggi, dicono, c'è da suonare Pino. Tutti. Non lo trovo, come ha scritto qualcuno, un atto di protagonismo, così come non malgiudico Belen Rodriguez perché non la conosco e non so cosa abbia potuto significare per lei la canzone di cui ha postato il testo. Certo, ha pubblicato una sua foto un pò glamour, ma magari lei in quella foto si vede triste e pensierosa e solo lei sa se e quanto quello scatto aderisca al suo stato d'animo di oggi. Ho letto "che ne sa lei che manco è nata in Italia". E' ingiusto e grave, se non offensivo, attaccare qualcuno così. Non si misura il merito e il diritto al dispiacere. Ognuno ha il suo. Ognuno lo manifesta come vuole.
Ho letto frasi intelligenti e profonde (Niccolò Fabi mi viene in mente al volo), ho letto cose più superficiali ma non per questo da criticare. Se scrive da lontano Terence Trent D'Arby è fico, se Emma ricorda che Pino la chiamava "Emmuccia" è una fuori luogo. Non è vero, siate discreti, comprensivi, non rendiamo questo luogo di scambi belli il letamaio che stanno diventando le strade d'Italia. Pino Daniele non è del Sud, è un italiano meraviglioso che ha dato una nuova musicalità alla lingua partenopea, che è un valore italiano. La bellezza della musica lega tutti, o dovrebbe, e certi politici che non sanno starsene zitti nemmeno in queste occasioni si descrivono da soli.
Oggi molta stampa parla in termini lusinghieri dell'importanza del lavoro di Pino Daniele, ma a me piacerebbe che certa stampa su certe considerazioni basasse la propria rinascita. Non se ne può più di leggere sui quotidiani solo le presentazioni e le recensioni dei grandi concerti. La musica è dentro tutti noi, ci nutre e ci sorregge. Per questo vorrei un ritorno alla critica, vorrei che la musica e i suoi valori, i valori delle sue parole, quando il valore c'é, tornassero di attualità, senza anche ci sia spazio solo per il mercato e il commercio della musica, senza che a tenere banco siano unicamente i grandi uffici stampa e management che regolano il traffico perché gestiscono i 50 nomi che contano e che fanno il fatturato.
Per questo, ma sono un sognatore, auspico un omaggio discografico a Pino Daniele senza il vincitore di un talent, senza l'artista che fa parte del giro e che tra due anni sarà scomparso, senza quelli che passano al Tg1 qualsiasi cosa facciano (era anche il caso di Pino Daniele, questo non lo dimentico, quando pubblicava album incolore), senza gli amici di, senza i nomi che fanno vendere, senza quelli che ormai costituiscono la compagnia di giro delle monografie televisive, senza gli ospiti, sempre quelli, dei concerti evento, senza quelli del "facciamo tre stadi anziché cento teatri", senza i poteri forti ostentati. 
Profilo basso, in apparenza. Grande sostanza e qualità, in realtà. L'imprevedibile che affascina e colpisce. Il feeling è sicuro, quello non se ne va, come cantava Pino. Faccio solo due nomi: Nino Buonocore e Tosca.
Ma non accadrà perché siamo qui.
O forse si. A me piace ancora sognare.

martedì 30 dicembre 2014

CHI TROVA UN AMICO TROVA UN LIBRO. ANZI DUE.



Chi trova un amico trova un libro. E se gli amici sono due, Gaetano "Blue" Bottazzi e Sergio D'Alesio, i libri raddoppiano.

Le cose che mi piacciono le tengo insieme, ne faccio marmellata. Specie se hanno un comune denominatore. E ne parlo, per il piacere di diffondere qualcosa in cui credo.
Lo faccio con i miei tempi. Ma alla fine il tempo lo trovo. Quelle da recensire sono parole per la musica, al servizio della passione per la musica. Due libri. Eccoci qui.

Iniziamo con “Perché non lo facciamo per la strada?” (Ed.Tip.Le.Co, 2014, 15 euro) di Blue Bottazzi.
Il secondo sforzo creativo del buon Bottazzi (giacchè per il primo, “Long Playing”, che sta per avere un gemellino, un lato B, aprirò presto una parentesi a parte, a opera conclusa) mi fa venire in mente un disco che amo molto, di Andrew Gold, un session man californiano di cui troverete il nome in un sacco di dischi di west coast anni '70, quelli di Linda Ronstadt compresi. L'album in questione è “What's wrong with this picture?”, che girava su vinile Asylum Records, roba seria, roba con un significato. Cosa c'era di strano nella copertina? La giravi e la rigiravi ed è era tutto a posto, apparentemente. Alla fine, guardando meglio, ti accorgevi che nel grande soggiorno le cui vetrate davano forse sul mare di Santa Barbara un paio di oggetti erano fuori posto: un 45 giri suonava (suonava?) agganciato a un registratore Revox, e la bobina di quest'ultimo era adagiata, inutilmente, sul piatto di un giradischi.
Quella confusione voluta, e annunciata, a me ha sempre fatto pensare che il significato fosse “la musica trova sempre una sua strada, anche se gli metti qualche bastone tra le ruote, anche se sposti qualcosa”.

Sulla copertina del bel libro di Bottazzi, che si fa chiamare Blue per via di Tom Waits e Rickie Lee Jones, ma questa è un'altra storia, non c'é niente che non va. Funziona tutto a meraviglia. Molte cose coincidono con l'iconografia del rock, a volerle leggere. Una coppia (lui ed Eleonora Bagarotti, altra anima piena di musica) come erano Tom & Rickie su “Blue Valentine”, altro disco marchiato Asylum. Giubbotti di pelle, il serbatoio di una moto che si intravvede, la t-shirt bianca che recita, in rosso amore, Triumph, come la Bonneville con cui nel 1966 Bobby Dylan scivolò per un po' via dalla musica facendosi male seriamente.
Nel background, mugs, insegne, forse ferri da lavoro. Per due, quattro ruote, mille sogni.
Una coppia innamorata che inneggia all'amplesso sull'asfalto? Non proprio. Qui c'è un'altra citazione, una canzone (quella del titolo del libro) che arriva dal doppio bianco dei Beatles, dalla voce di un McCartney votato a un blues alla Steppenwolf. Non i Beatles più popolari, di certo i più intensi e sporchi.

Le 250 pagine raccolgono in 33 capitoli e 33 decaloghi un bel po' di sensazioni sparse vergate da chi si sente e si descrive “salvato dal rock'n'roll”. Sinceri, senza retorica, dunque veri sono gli appunti del Blue. La confusione regna sovrana, come nella stanza di Andrew Gold. Ma da quella confusione il lettore, se motivato, si lascia trasportare con piacere e sicurezza, come fossero i copertoni di una inglese mid Sixties a incollarti alla strada.
Non aspettatevi una recensione, dovete leggervelo voi il libro. Io ho preso appunti sparsi, perché così leggo ormai i libri, tutti i libri, andandomi a cercare ciò che mi soddisfa in quel momento, per poi tornare giorni dopo, a curiosare e ascoltare. Si, ascoltare, perché che le abbiate in testa o che le rimettiate sul piatto per l'occasione, sono le canzoni le inevitabili compagne di lettura. E le canzoni e i sogni che si tirano dietro portano via tempo. Questo libro può durarvi mesi, dunque, come è accaduto a me. Se i vostri ricordi coincidono poi con gran parte di ciò che trovate scritto da Blue, allora siete fregati.
Leggi il capitolo sui riff (da quello di “Whole lotta love” degli Zeppelin a quello di “Lola” dei Kinks, c'è tutta la gamma rappresentata) e ti metti davanti allo specchio con la padella. Scorri le pagine di “Beatles o Rolling Stones?” e riaffiorano i dubbi di sempre: i primi erano più melodici, i secondi più tosti. Deciso: meglio i secondi. Poi ti ricordi di “Angie” e “Helter Skelter”. Chi erano quelli tosti? Vabbè, incartameli tutti e due che ci faccio un bel pò di chilometri.
Ecco i “doppi dal vivo” quando i doppi dal vivo erano un punto di arrivo e non di partenza. Oggi non si nega a nessuno un dischetto da 79 minuti registrato a un concerto durante il tour del secondo disco. Un tempo, ai nostri tempi (vero Blue? vero Eleonora?), il doppio dal vivo era uno dei sogni più selvaggi e proibiti, dunque non arrivava mai, vedi Bruce al Winterland di San Francisco, oppure si chiamava “Fleetwood Mac Live”, e i Mac per meritarselo erano dovuti partire dall'Inghilterra, prendere casa in California, cambiare vita e rifare i documenti e soprattutto fare “Rumours”, il che non è proprio cosa da tutti.
Nel capitolo dedicato alle classiche “quattro facciate registrate dal vivo” si viaggia che è una bellezza, dalla Royal Albert Hall al Fillmore East, dal Trobadour sui boulevard californiani al Rainbow delle piogge inglesi. Portatevi scarpe comode che c'è da pedalare.
C'é un capitolo di bella sensibilità, dedicato alle parole che un tempo ti si conficcavano nel cervello, letali come le “silver bullets” di Bob Seger, proiettili micidiali se stai sotto ai vent'anni. La forza di quelle parole (da “Perfect day” e “Heroin” di Lou Reed a “New York City Serenade” del Boss) e il loro contrario, perché ognuno nelle canzoni ci vede qualcosa di personale, ognuno incolla le proprie figurine sui volto di Billy o mette il Lambrusco o Villa Borghese al posto della Sangria che qualcuno beve a Central Park. Canzoni come scatole vuote, talvolta, pronte per essere riempite da noi, e questo senso di intercambiabilità dei sentimenti l'autore lo ha centrato alla perfezione.
Le canzoni sono anche questo: satelliti per l'amore o un navigatore satellitare che impostiamo noi.
Potrei recitarvelo tutto, “Perché non lo facciamo per la strada?”, ma c'é D'Alesio con le sue camicie colorate che sgomita. Chiudo ricordandovi di scendere a comprare un pacchetto di C90 perché di suggerimenti per farvi qualche cassettina ce ne sono parecchi, e tutti validi, a firma Bottazzi.
Anzi, no, un momento: chiudo con una domanda all'autore, perché fa un po' figo e dà l'idea che il libro lo hai letto davvero:
- capitolo “Questioni di etichetta”, pagina 114, le “10 copertine più belle del rock”: mi metti “Amorica” dei Black Crowes e il suo triangolino e ti dimentichi “Late for the sky” di Jackson Browne con quel cielo e quelle luci alla Magritte? Ma un pelo di “f” tira davvero più della Chevrolet di “The road and the sky”? Siamo sicuri?
Si scherza. Lavoro egregio, compare.

“Eagles: la leggenda del country-rock” (Aerostella, 2014, 16 euro) chi poteva firmarlo se non Sergio D'Alesio, uno che di California parlava quando la California voleva dire davvero “terra promessa” e non Gangsta Rap, e quando fratello si scriveva brother e non brotha e stava per “brother Jackson”. Punti di vista, diversi modi di sentire la musica. Diversità, non meglio o peggio.
A noi piace la west coast delle chitarre e delle armonie vocali, dunque tutta quella roba lì che oggi è un po' scolorita, sfumata, ma rivive nei ricordi, nella voglia di raccontare ancora e in qualche disco azzeccato di qualche vecchio eroe che non ha mai smarrito il talento e la credibilità: è il caso di Jackson Browne e del suo ultimo “Standing in the breach”, sospeso come sempre tra la politica del mondo e quella dei sentimenti più intimi.
Quando gli Eagles firmarono per la Asylum di David Geffen vennero presto sorretti – anzi, portati a volare - da una canzone, “Take it easy”, un cerchio che Browne aveva abbozzato ma che per trovare la sua quadratura aveva dovuto contare sull'intervento di Glenn Frey, uno che arrivava da Detroit, ovvero dalla casa del rock duro e della Motown, ma che insieme a Don Henley avrebbe tempestato di capolavori il firmamento del Golden State, lasciando una scia che avrebbe prodotto emuli e seguaci.
Henley e Frey sono le fondamenta degli Eagles, ovvero di tutto ciò che si estende da “Take it easy” all'ultimo tour con il redivivo Bernie Leadon che abbiamo visto quest'anno anche in Europa. Oltre quarant'anni di musica che hanno dipinto il lifestyle spesso eccessivo di una città dispersiva come Los Angeles negli anni in cui questa era la capitale d'America di tutte le musiche. Tanto attraente quanto fagocitante la Città degli Angeli, a tal punto che chi arrivava lì diventava californiano per sempre, che fosse il britannico Graham Nash o Joni Mitchell da Alberta, Canada. Pure The Band, giovanotti canadesi che servirono Dylan e tanta tradizione americana, restano consegnati alla memoria collettiva nello storico scatolone del Winterland, a San Francisco, teatro del loro “ultimo valzer”, negli stessi anni in cui Springsteen conquistava definitivamente da quel palco la California con la E Street Band.
“Siamo gli Eagles, da Los Angeles”, gridavano orgogliosi presentandosi al loro pubblico i quattro che scrissero le prime pagine di una storia leggendaria; eppure Randy Meisner arrivava dal Colorado e dai Poco, Bernie Leadon dal Minnesota, Don Henley portava la sua voce soul dal Texas e di Frey si è detto. Tutto spazzato via, come le armonie vocali se travolte dalla raucedine, tutti californiani, per convenzione e per vocazione.
Naturalmente sappiamo, come scrive D'Alesio, che c'erano stati “i rivoluzionari anni Sessanta, durante l'impero folk-rock dei Byrds contrapposto alla ipnotica psichedelia dei Doors e dei Quicksilver Messenger Service”, ma servivano dei continuatori in grado di essere anche più popolari e stabili di McGuinn e soci, che nei primi Settanta, quando gli Eagles lucidavano ancora il piumaggio, avevano già dato il meglio ed erano in fase calante, con un organico che aveva già perso Gene Clark, Chris Hillman, David Crosby e Gram Parsons.
Bernie Leadon, che arrivava dai Flying Burrito Brothers di Gram Parsons, una costola proprio dei Byrds, dichiarò in quei giorni a Rolling Stone “tutti sembrano impazziti e ci corteggiano dicendo che diventeremo più grandi di CSN&Y”.
Queste sono le basi su cui D'Alesio imposta il proprio volo su una storia che possiede forza e romanticismo, dramma e gelosie, ma che è il contenitore che accoglie tutti i pezzi di un enorme puzzle iniziato, come visto, con leggende, gli Eagles, nate da altre leggende. Quando morì Parsons, distrutto dagli eccessi e dalle droghe, Leadon scrisse per lui “My man” , e la canzone finì sul terzo disco della band, “On the border”, come un dolce e amaro epitaffio cantato meravigliosamente a quattro voci.
Da lì sarebbero arrivati “Hotel California”, il successo planetario, le liti, gli innesti, lo scioglimento e la pace sempre a denti stretti e con regole ferree per regolare gli enormi flussi di denaro.
Tra musica e interessi se ne sono andati, da “The Long Run”, che nel 1980 chiuse la prima luminosa fase del gruppo, ben trentacinque anni vissuti dal pubblico con un instancabile senso di gratitudine stampato sul viso ma anche con l'esasperazione di chi attende qualcosa di nuovo che arriva col contagocce. Il sottoscritto scrisse nel 1995 la prefazione all'edizione italiana di “The long run – the history of the Eagles” di Marc Shapiro. Era appena uscito “Hell Freezes over”, un live con quattro inediti, i primi che si ascoltvano dal gruppo (nel frattempo lievitato in tanti anni grazie alle presenze di Tim Schmith, Joe Walsh e Don Felder) proprio dai tempi di “The long run”. Nell'aria c'era una certa eccitazione, sembrava il preludio a quella costanza che tutti si aspettavano. E costanza fu, ma solo di apparizioni live buone per vendere il back catalogue e per rinforzare le carriere soliste (Don Henley, il migliore, con successi cristallini come “The boys of summer” e “The end of the innocence”). L'unico vero disco interamente composto da canzoni nuove resta per gli Eagles “Long road out of Eden” del 2007, giunto vent'otto anni dopo “The long run”. Di lunghe, lunghissime corse parliamo qui, e non servono metafore. E' la realtà che ha circondato la band nata davanti al Pacifico e nei deserti lì vicino.
Una realtà, quella raccontata, fatta di una tenuta artistica ancora validissima ma anche di una capacità organizzativa e manageriale sopra la media. Brani dal suono contemporaneo e anche strategie per accarezzare la memoria di chi è rimasto da allora; ecco spiegata “How long”, ripescata dal repertorio del vecchio complice John David Souther e per questo affine agli album dei primi anni, quelli che come etichetta avevano il cielo della Asylum, con quel marchio che ritorna nel nostro racconto sui due libri scelti per voi e che crea per questo un sottile legame con Bottazzi, Waits e anche quella “Ol'55” che proprio Waits riprese dagli Eagles, allora compagni di etichetta.
Il resto, tutto il resto, scopritelo nelle 150 pagine in cui D'Alesio riassume quarant'anni e più di storia della band senza fermarsi all'attività di gruppo ma andando oltre, fornendo il quadro più aggiornato delle vicende soliste di tutti i componenti transitati nell'organico dal 1972 al 2014.
Niente male.

Due libri, due amici. Alla prossima canzone.