Ieri - 28 settembre - si sono presentati sul mercato due album: il nuovo dei Babyshambles di quel matto di Pete Doherty e il quindicesimo (in studio) di quel vecchio saggio di Bruce Springsteen.
Tra vent’anni la coincidenza verrà ricordata solo se nel frattempo l’inglese sarà diventato un artista rispettabile o se l’album del Boss avrà superato le copie vendute da Born In The U.S.A.
Ho seri dubbi che entrambe le cose possano accadere.
Sulle reali possibilità che il ragazzetto di Hexham possa rinsavire lascio azzuffarsi i suoi fan e i suoi biografi, sulle capacità di penetrazione del mercato di Magic si è già espresso Jon Landau.
Il manager di Springsteen, ovvero l’uomo che lasciò un giorno il suo desk da giornalista per diventare impresario e produttore di artisti rock, lo conoscono anche a Katmandu per aver centrato nel 1974 la previsione che il suo più importante assistito sarebbe diventato “il futuro del rock’n’roll”. Oggi corre seriamente il rischio che da Tucumcari all’isola di Capo Verde possa girar voce che non ne azzecchi più una.
Perché nei giorni che hanno preceduto la pubblicazione di Magic si è lasciato sfuggire, forse preso dalla stessa foga con cui ogni venditore lucida il pelo della propria bestia, che Springsteen aveva realizzato un album “ben suonato, molto leggero, immensamente godibile e nient’affatto politico”.
Non lo ha detto all’orecchio del suo gommista ma a un giornalista, che ha prontamente pubblicato. Per questo va preso sul serio. Così torniamo dubbiosi, perché prima di tutto un vero album di rock’n’roll raramente è “ben suonato” (e se lo è non si dice, perché usa nel pop, e sta bene per Gaucho degli Steely Dan, non per Exile On Main St. dei Rolling Stones). Poi, a costo – se smentiti - di ripartire dal via nel Monopoli del Rock, azzardiamo che queste canzoni non sono leggere (nient’affatto), che l’immensa godibilità (nel senso di spensieratezza) è semmai prerogativa delle carezze doo-wop dei Crests (Sixteen Candles, presente American Graffiti?) o delle canzoni pubblicate dai Beatles prima di Revolver. In ultimo, una certezza da non trascurare: le intenzioni e i testi di questo Springsteen sono politici, come sempre.
Chiedere a Pete Seeger, a Steve Earle, a Billy Bragg se con la condanna, l’indignazione, la collera poi si vendono i dischi in quantità tali da poter accedere al podio della Top Ten. Ascoltando le canzoni di Magic viene il sospetto che il sottotitolo che Landau ha voluto dare all’album – “allegro e disimpegnato” – nasconda in realtà la volontà di non inibirsi del tutto quella fetta di pubblico che ai tempi del Vote For Change, quando Springsteen prese posizione spalleggiando il candidato democratico alla Casa Bianca John Kerry, gridava al suo idolo con la chitarra Fender al collo di “chiudere il becco e continuare a cantare” (ovvero l’inelegante “shut up and sing” che non si dice a nessuno, tanto meno a un Boss di cuore e di pensiero). Descrivere queste composizioni per quello che non sono, anche quando, come Livin’ In The Future, si mettono la maschera del pop frizzante che galleggia a metà strada tra la Stax e Hungry Heart, significa far loro un grande torto.
Proprio lì, in quel pezzo che sembra possedere il sacro fuoco del soul che ha messo nella penna di Springsteen le Tenth Avenue Freeze-out e le tante gemme lavorate per Gary U.S. Bonds, non si fatica a trovare parole ruvide e il definitivo tracollo del Sogno Americano, o dell’ennesima versione ricarrozzata di quella vecchia macchina che ogni tanto da quelle parti qualcuno prova a rimettere in moto.
Tra vent’anni la coincidenza verrà ricordata solo se nel frattempo l’inglese sarà diventato un artista rispettabile o se l’album del Boss avrà superato le copie vendute da Born In The U.S.A.
Ho seri dubbi che entrambe le cose possano accadere.
Sulle reali possibilità che il ragazzetto di Hexham possa rinsavire lascio azzuffarsi i suoi fan e i suoi biografi, sulle capacità di penetrazione del mercato di Magic si è già espresso Jon Landau.
Il manager di Springsteen, ovvero l’uomo che lasciò un giorno il suo desk da giornalista per diventare impresario e produttore di artisti rock, lo conoscono anche a Katmandu per aver centrato nel 1974 la previsione che il suo più importante assistito sarebbe diventato “il futuro del rock’n’roll”. Oggi corre seriamente il rischio che da Tucumcari all’isola di Capo Verde possa girar voce che non ne azzecchi più una.
Perché nei giorni che hanno preceduto la pubblicazione di Magic si è lasciato sfuggire, forse preso dalla stessa foga con cui ogni venditore lucida il pelo della propria bestia, che Springsteen aveva realizzato un album “ben suonato, molto leggero, immensamente godibile e nient’affatto politico”.
Non lo ha detto all’orecchio del suo gommista ma a un giornalista, che ha prontamente pubblicato. Per questo va preso sul serio. Così torniamo dubbiosi, perché prima di tutto un vero album di rock’n’roll raramente è “ben suonato” (e se lo è non si dice, perché usa nel pop, e sta bene per Gaucho degli Steely Dan, non per Exile On Main St. dei Rolling Stones). Poi, a costo – se smentiti - di ripartire dal via nel Monopoli del Rock, azzardiamo che queste canzoni non sono leggere (nient’affatto), che l’immensa godibilità (nel senso di spensieratezza) è semmai prerogativa delle carezze doo-wop dei Crests (Sixteen Candles, presente American Graffiti?) o delle canzoni pubblicate dai Beatles prima di Revolver. In ultimo, una certezza da non trascurare: le intenzioni e i testi di questo Springsteen sono politici, come sempre.
Chiedere a Pete Seeger, a Steve Earle, a Billy Bragg se con la condanna, l’indignazione, la collera poi si vendono i dischi in quantità tali da poter accedere al podio della Top Ten. Ascoltando le canzoni di Magic viene il sospetto che il sottotitolo che Landau ha voluto dare all’album – “allegro e disimpegnato” – nasconda in realtà la volontà di non inibirsi del tutto quella fetta di pubblico che ai tempi del Vote For Change, quando Springsteen prese posizione spalleggiando il candidato democratico alla Casa Bianca John Kerry, gridava al suo idolo con la chitarra Fender al collo di “chiudere il becco e continuare a cantare” (ovvero l’inelegante “shut up and sing” che non si dice a nessuno, tanto meno a un Boss di cuore e di pensiero). Descrivere queste composizioni per quello che non sono, anche quando, come Livin’ In The Future, si mettono la maschera del pop frizzante che galleggia a metà strada tra la Stax e Hungry Heart, significa far loro un grande torto.
Proprio lì, in quel pezzo che sembra possedere il sacro fuoco del soul che ha messo nella penna di Springsteen le Tenth Avenue Freeze-out e le tante gemme lavorate per Gary U.S. Bonds, non si fatica a trovare parole ruvide e il definitivo tracollo del Sogno Americano, o dell’ennesima versione ricarrozzata di quella vecchia macchina che ogni tanto da quelle parti qualcuno prova a rimettere in moto.
“Un vento malato ha recapitato una lettera / parla di me e di te / come di due estranei / ma prima o poi doveva capitare / e io mi sono fatto cieco e muto / come quando ci baciamo”.
La prima tirata d’orecchie è morbida, scritta per salvare l’orgoglio e i gioielli di famiglia dalle malelingue che avevano velenosamente diffuso voci (smentite) di separazione tra Springsteen e Patti Scialfa. Poi si aprono le finestre di casa, con affaccio su una vita che a molti presenta difficoltà ben superiori, e sono colpi di fucile diretti a una classe politica che sta a guardare. La voce di Bruce sembra far risuonare tutto il malumore di chi ha dovuto accettare che George Bush restasse al suo posto davanti a un Kerry sconfitto (“ho aperto il mio cuore per te / ne ho ricavato solo danno / la mia nave chiamata Libertà si sta allontanando / verso un orizzonte rosso sangue”). E’ leggero e nient’affatto politico un album che piazza lì, funerea, l’immagine di un sorvegliante che “apre i cancelli ai cani inferociti”? E' desolante o no parlare di qualcosa di "virtuoso" (l'espressione “righteous” compare nel disco più volte) che sta “colando a picco”?
A volerle interpretare in un certo modo, le parole di Springsteen suonano proprio come il lamento - più deluso che rabbioso - di un'America che si sente tradita.
Ecco, Livin' In The Future - ognuno la metta come vuole - è una canzone sul tradimento, e ben riflette lo spirito dell'intero album.
La meraviglia in tutto ciò è l'agrodolce del ritornello, che in molti intoneranno “spensierati” (ma in concerto vale tutto: quella è casa delle emozioni, dei pugni in alto, delle corde vocali portate allo sfinimento, guai ad intaccarne la sacralità) ma che in bella sostanza si tuffa nel sarcasmo e ripete “non preoccuparti, dolcezza, mantieni la calma / stiamo vivendo nel futuro / nulla di tutto questo è ancora accaduto”.
Springsteen non è affatto tranquillizzante né musicalmente accondiscendente, qui. Non avrebbe scelto certi scenari e non avrebbe affidato la matematica perfetta della sua E Street Band a quello scienziato pazzo di Brendan O’Brian che quell’aritmetica spesso nega, intubando voci e tastiere, avvolgendo il prezioso sassofono di Clemons attorno alle chitarre come un filo di cachemire attorno a un ferro arrugginito, incastrando talvolta la voce del Capo (accade in You’ll Be Comin’ Down più che altrove) in un groviglio di suoni che richiede al pubblico maturo del classic rock uno sforzo che forse non sa permettersi. Il produttore formatosi con il suono roboante e livido dei Pearl Jam non fa sconti quasi mai, ma è questo a fare di Magic un disco competitivo come mai riescono ad essere, oggi, le opere dei tanti dinosauri del rock che lasceranno la scena solo a sassate.
Se Bruce e i suoi boys, che non lavorano più come la band di un tempo ma fanno tesoro dell’esperienza e dell’abitudine a scaldare le valvole velocemente, avessero replicato le loro trame più abusate chissà le sculacciate dalla critica. Il tempo trascorso insieme nei Southern Tracks Studios di Atlanta è stato poco rispetto alle sgroppate dei tempi di Darkness e The River, quando sei settimane bastavano forse a incaponirsi su take multiple di una stessa canzone e a capire che quel pezzo – parole di Boss – “non era utile al contesto”, così più che proteggere a spada tratta il pedigree la E Street Band si è lasciata guidare da nuovi canoni, non del tutto esplorati ai giorni del più conservatore The Rising. Da questa inedita disponibilità a sacrificare il pregio delle individualità è sgorgato un suono in alcuni episodi molto complesso, quel Wall Of Sound che Bruce cercava in Born To Run e che qui davvero trionfa ed è luminosamente geniale.
Quando parte Girls In Their Summer Clothes, calata in uno scenario che sa di boardwalk e passeggiate ricordando i Drifters, ti aspetti una Lonesome Day, ma il cantato conduce altrove, tra le pieghe (“magiche”, come altro definirle) delle più elaborate evoluzioni di Brian Wilson, con o senza i Beach Boys. Sono archi, campanelli, muri di chitarre e cori celestiali ad ornare questa imprevedibile composizione, che si tuffa negli anni Sessanta, un suono che paga sempre se le corde da toccare sono la rassegnazione e il rimpianto. In questo, Girls è sorella di Long Walk Home per come i protagonisti riavvolgono il nastro della loro memoria. Se in questa Glory Days vent’anni dopo (le “ragazze in abiti estivi passano veloci” hanno la stessa valenza dei “giorni di gloria” che “ti passano sopra la testa alla velocità con cui una ragazzina sbatte le ciglia”) è tenue il rammarico nei confronti di una giovinezza sfuggita inevitabilmente di mano, aspro è il commento dell’uomo che in Long Walk Home (un reduce?) mette in fila tutte le difficoltà di un rientro a casa, in quella small town dove il barbiere di South Street “non lo riconosco più”, il diner dell’angolo è fallito e il campo dei Veterani osserva silenzioso dall’alto della collina. Scene da Born In The U.S.A. e Shut Out The Light, scene da Vietnam, che ritornano ossessive come colpi di mortaio. Su cadaveri e uomini svuotati c’è ora il marchio dell’Iraq, ma la ferita della guerra è la stessa. Il passo qui è dapprima lento, serve a raccogliere il peso del dolore seminato per strada, poi – ed è quello che accade anche in Gypsy Biker (profumo di Lucky Town, tra armoniche e chitarre col vibrato, per la storia di un combattente che non è tornato più) – la band gonfia il petto, e tutto si fa più tumultuoso. Era accaduto in altre war songs del passato (Souls Of The Departed).
Nella canzone che dà il titolo all’album, forse la più enigmatica del lotto, Springsteen compone nella vena di The Ghost Of Tom Joad, infilandosi in quel solco country celtico che lo fa assomigliare al Mark Knopfler solista. Sembra di vedere il cappellaio matto, quello che in un video di Tom Petty (Don’t Come Around Here No More) faceva a fette Alice, torta tutta panna da leccarsi i baffi. Nessun Paese delle Meraviglie qui, qualcuno avvisi Landau e qualche recensore distratto che potrebbe cadere nel tranello: l’illusionista di Magic ci invita ad avvicinarci, propone di far scomparire la moneta che ha in mano, avvisa che potrai pensare a una carta e lui tirerà fuori proprio quella dalla sua manica, ma nel cilindro nero sembra di scorgere dietro al coniglio l’America dei tranelli e dei trucchi che nella vita vera non riescono. E’ un modo nemmeno troppo velato, quello scelto da Springsteen, di comunicare tensione, insoddisfazione, paura. Basta leggere bene e certe frasi – “non fidarti di quello che ascolti, meno ancora di quel che vedi”, oppure “la libertà che hai cercato oscilla come un fantasma tra gli alberi” – passano da parte a parte, lacerano davvero, altro che la spada innocua di un maghetto. Per chi avesse dubbi, o avesse creduto di ascoltare un brano della Electric Light Orchestra, basterà l’ultima scena, con quei campi di battaglia dove portare con sé “solo ciò di cui si ha paura” e dove sotto a un sole che cala lentamente ci sono “corpi che penzolano dagli alberi”.
In un disco che rovista con agile curiosità nel campionario di casa Springsteen non manca l’energia di brani oscuri smarriti ai tempi di The River: The Last To Die ha il passo di Roulette e si chiede di chi sarà “il sangue che ancora scorrerà”, di chi “il prossimo cuore pronto a spezzarsi”, chi sarà il prossimo “a morire per un errore”; Your Own Worst Enemy potrebbe essere una b-song degna di Tracks, avvolgente e cantabile come lo era stata None But The Brave, ma l’orchestrazione da Oscar, l’impasto sapiente delle voci (ancora Beach Boys), il rintocco austero di una campana in lontananza, l’Hammond elegantissimo le conferiscono una classe di categoria superiore. “Il tuo peggior nemico sta arrivando in città” è l’ennesimo confronto tra epoche diverse (“tutto si è capovolto”), ieri e l’oggi che si guardano in cagnesco, la pace e la sicurezza di un tempo a sfidarsi a duello con tutta l’incertezza che regaliamo ai nostri figli insieme al dono della vita. Colpisce l'emissione vocale quasi tenorile adottata per le ultime parole del brano (“la bandiera un tempo restava dritta, puntata verso il cielo”) perchè propone uno Springsteen inedito.
In questo contesto, così vario e in alcuni passaggi addirittura respingente (tanti gli ingredienti, e molto – come sempre – affiora solo dopo tanti ascolti), un pezzo come Radio Nowhere, lanciato come singolo in un sistema discografico in cui il singolo in realtà non si capisce più cosa sia (un pezzo che non viene nemmeno venduto?, un clip che non va in rotazione televisiva?), rischia di apparire un corpo estraneo. Poi anche i suoi cliché (la scrittura prevedibile, le chitarre già sentite) svelano un’attinenza con il resto. L’uomo che con un approccio quasi punk urla “c’è qualcuno ancora vivo lì fuori?” sollecita una reazione, scuote la coscienza di ognuno di noi. E’ la voce di una radio persa nel nulla che ha ancora la forza di indicare cosa è giusto fare e cosa no. E’ il Live Earth personale di un singolo individuo, Bruce Springsteen, che se canta I’ll Work For Your Love, bellissima, riesumando vecchie formule senza cedere troppo alla nostalgia, ti mette i brividi ed è convincente come quando con la Seeger Session Band prese un vecchio blues di Albert Reed (How Can A Poor Man Stand Such Times And Live?) e lo fece diventare una canzone d’amore per New Orleans travolta dall’uragano Katrina.
Di amore si torna a parlare in Devil’s Arcade. E' l’amore di una donna che accoglie il suo eroe – un altro eroe segnato, fiaccato, impaurito e fragile - e lo riporta a una vita normale, fatta di mattine da mettere in fila e colazioni da preparare. Ma lui si addormenta sognando i suoi “compagni” Charlie e Jim, e l’odore di un deserto di guerra non abbandona la sua pelle.
Tanto prodotta e “costruita” è Devil’s Arcade (è lo Springsteen “sperimentale” di Missing e Lift Me Up ad agire da queste parti) quanto scarna e primitiva suona Terry’s Song, traccia nascosta aggiunta sul filo di lana. Springsteen l’ha scritta in estate, la notte dopo la morte del suo vecchio amico e assistente Terry Magovern, una montagna d’uomo che lo ha preceduto ovunque in una vita di concerti da stadio e piccoli club. Voce, pianoforte, una chitarra acustica e poco altro per Terry, uomo di forza e sentimento, un marine, un biker, uno di quelli davvero “ultimi a morire”.
“L’amore è più forte della morte, come le canzoni e le storie da raccontare”, canta Bruce forse con gli occhi ancora arrossati. Verrebbe da chiedergli dove trovi la lucidità, la voglia, il talento per far confluire nell’ultima canzone, coda non prevista di un album da cui appare lontana anni luce, tutto il significato dell’album stesso.
E si potrebbe aggiungere, osando, se davvero pensa che questo suo ennesimo capolavoro di impegno, realismo, integrità e commovente passione, se queste canzoni ancora una volta a misura d’uomo, se tutto questo sia il bagaglio di un artista alle prese con un lavoro “molto leggero e non rivolto alla guerra”.
Ma in fondo è giusto che ognuno di noi - specialmente Landau, il più vicino alla fonte - pensi quello che vuole. L'augurio è che Springsteen non faccia come l’incauto venditore di illusioni, che promette magie e mescola mazzi di carte tutte uguali: potrebbe lasciarsi prendere la mano e farsi scomparire, insinuandoci il dubbio che non sia mai esistito.
Ed è un rischio, quello, che non vorremmo mai correre.
20 commenti:
La tua analisi è interessante, mi darà stimolo a sentire con più attenzione l'album, anche se devo ammettere che nonostante il vecchio Zio Bruce mi pare invecchi benissimo - e le Seeger Sessions lo dimostrano alla grande - ho piuttosto l'impressione che Magic, per come è confezionato e prodotto, sia il risultato - uno dei risultati - dell'ennesimo tentativo di Landau di ricacciare indietro i gli sforzi del nostro a muoversi pienamente secondo il suo istinto creativo (che mi pare ancora ben più audace della capacità dei discografici e dei fonici di comprenderlo). A me arriva, anche da questa "Magia", la sensazione che se liberato dalle "cattive influenze" cui anche tu fai esplicito riferimento, la "libertà" tradita di cui il disco parla potrebbe tornare a esprimersi più pienamente. Un abbraccio
what can i say.... brilliant....
grazie Ermanno. Tra le conferme che la musica di Bruce porta con se c'è anche questa volta la sensibilità attenta ed intelligente con cui tu ascolti le sue canzoni.
articolo davvero bellissimo
E se Landau avesse preso alla lettera il verso di Bruce?...“non fidarti di quello che ascolti, meno ancora di quel che vedi”... Mi ricorda un pò il tono scherzoso ma secco e deciso di quel "NO" di risposta che Bruce diede, durante lo Storyteller, a quel ragazzo che gli chiedeva "se pensava di conoscerlo"... A parte le battute credo che Bruce scavi come al solito con una profondità unica nel momento che attraversiamo, nel passaggio che stiamo compiendo. Un momento in cui non esiste più nessuna certezza, nessuna sicurezza, nessuna garanzia, gettati come siamo in un ignoto domani che il più delle volte ci appare in maniera terrifica e paralizzante. Il tutto gravemente inquinato dalla menzogna e dalla bugia, che siano gossip o maldicenze a livello personale, o disinformazione a livello collettivo. Mi viene in mente l'ultimo verso di Brillant Disguise, e quella invocazione di misericordia a Dio per un uomo che non ha più certezze. Trovo che i dischi di Bruce abbiano un "movimento nascosto circolare", quasi esoterico (l'ho sparata grossa), dal primo brano all'ultimo, come se finito il disco la storia ripartisse, come in un ciclo senza fine (l'eterno movimento della vita?). Badlands (il riscatto) e Darkness (la disperazione della perdita, da cui non si può uscire senza "sputare in faccia a quelle terre malvage"). The ties that bind (mettere in discussione i legami che contano) e Wreck on the highway (scoprire il valore e l'importanza di quei legami solo quando si spezzano definitivamente con la morte). E si può andare avanti...Fino a quel disperato appello di Radio Nowhere (ad un'opprimente solitudine persa tra quelle frequenze vuote) e Terry's song (la perdita di un vero blood brother) che si può lenire solo trovando "qualcuno vivo là fuori". Il cerchio si chiude...E il ciclo ha di nuovo inizio. Ci sarebbe tanto altro da dire... Musicalmente il disco mi piace, e non poco...Ma ho già scritto troppo.
Comunque Ermanno, grazie di cuore per le tue parole, sempre così emozionanti ed illuminanti.
Aspettavo Bruce per veder cosa avesse da dirmi questa volta...ed ho ritrovato un caro compagno di viaggio per questo tratto di strada...fino al prossimo...
Un abbraccio
più che esoterico, io trovo che i dischi di Springsteen, soprattutto gli ultimi, esprimano una grande domanda, intesa in senso religioso.
non penso abbia avuto una "conversione" alla bob dylan, ma il fatto che infarcisca le sue ultime canzoni di simbologia cristiana così evidente (ad esempio in I'll work for your love) testimonia di un uomo che si sta facendo delle domande molto pressanti.
ha sempre usato una certa metafora "cattolica" nei suoi testi, ma se una volta lo faceva per irridire la fede e prenderne le distanze, adesso sembra che voglia trovare il modo giusto per avvicinarsi sempre di più.
Beh, il trovare "qualcuno vivo là fuori", in particolare l'amico fedele di sempre e la donna amata attraverso la cui carne passa il Mistero (non sono né casuali né secondari tutti quei riferimenti alle stazioni della Via Crucis, alla Rivelazione, al rosario, ma anche alla quotidianità vissuta di due corpi che si sfiorano e di una colazione da preparare, ) non è cosa da poco.
E' un punto fermo, una certezza, una risposta (o un inizio di risposta, per i più scettici) alla domanda drammatica: "I want to know if love is real". La risposta è "sì".
La morte (la finitezza, il male, la sofferenza, il peccato) non ha l'ultima parola. La città in rovine risorgerà.
Grande Bruce, grazie Ermanno.
Maria Claudia
Marco, ho visto il tuo post a commento del pezzo su Magic.
L'hai erroneamente lasciato tra le rispste alla recensione di Ben Harper, così te lì'ho spostato qui, in modo che tutti posaano vederlo dopo aver letto la mia recensione.
Ciao e grazie del tuo intervento, Erm
marco ha detto...
Radio Nowhere nasconde dietro il titolo e la voglia di chitarre e batterie una ricerca ben più difficile da patre dell’uomo di “cercare un mondo con un po’ di anima” e poi ancora “voglio solo sentire (non ascoltare, ma provare sulla pelle) del ritmo” dove mi pare evidente non intenda dei suoni ma un moto umano, la vita. Addirittura chiede se al di fuori ci sia qualcuno vivo in ascolto “is there anybody alive up there?”. Gran voce, grandi chitarre e batteria a cannone, l’inizio ideale per gli show dal vivo.
You’ll Be Comin’ Down ha l’intro di chitarre degli Stones in stato di grazia, poi la band entra in pieno alla grande e mi ricorda il sound e la voce delle outtakes dal 79 fino all’83 ed il tutto mischiato con l’impatto che su The Rising aveva Lonesome Day. Il testo mi rimanda un pò al senso che aveva I Ain’t Got You, dove diamanti e anelli di cui ci si riempie non servono per raggiungere la felicità. Ma se allora erano versi rivolti all’interno ora l’interlocutore è un’altra persona. E’ un pezzo che nasconde la malinconia di un sorriso che svanisce in fretta “You’re smiling now but you’ll find out” così come in fretta cambia tutto “pretty soon it turns out”. La forza del pezzo la da il fatto che testo è triste e la musica no, ed hanno spessore entrambi.
Livin’ In The Future inizia, continua e finisce col sax che fù di Tenth Avenue e strizza un occhio a Gary Us Bonds, ma anche qui la musica è una festa ed il testo no. Ci sono versi forti come “sapore di sangue sulla tua lingua” e “the groundskeeper opened the gates and let the wild dogs run” mentre la “Libertà è viaggiata via….” ancora verso un orizzonte rosso sangue.
Your Worst Enemy è quello che rimane di The Rising oggi. Se cinque anni fà il pensiero era ancora animato da speranza di risorgere “come on up for the rising” e “come on rise up”, oggi “non puoi dormire la notte”, “non puoi sognare i tuoi sogni”, ieri “i bambini dormivano in pace e tu sapevi dove eri”, oggi ogni cosa si è capovolta, e quello che ieri era al sicuro oggi non lo è più. C’è il nemico fuori di noi, tra noi, che comunque è arrivato in città, in ogni città, e la bandiera è arrivata talmente in alto che è volata via. Ancora tetro a differenza della musica.
Gypsy Biker è una cavalcata di chitarre che dal vivo faranno esplodere i palazzetti, Max dietro picchia come un forsennato. Il pezzo mi rimanda vagamente a Seven Angels su Tracks, ma qui è più veloce. Parte pessimista come peggio non si può con “the speculators made their money on the BLOOD you shed”. Poi ancora solo tombe e morte e il corpo del gypsy biker, ennesimo reduce di guerrra, che rimane immobile a terra mentre scivola nell’oscurità.
Girls In Their Summer Clothes, bellissima, ha soprattutto nel cantato quel sapore alla Hungry Heart, quell’idea delle outtakes post Darkness dove piano, organo e sax che oggi sono dentro una volta uscivano fuori. “Lovers they walk by… holding hands two by two” sembra proprio un verso di quegli anni. Sembra un classico. E’ la Waitin’ On A Sunny Day di questo disco.
Un pianoforte che arriva da Jungleland e si ferma li, un attimo prima a ricordarci che non è più il millenovecentosettantacinque. Chi scrive adesso parla di Madre Teresa di Calcutta alla quale dedica il suo amore e il suo lavoro “in cerca del proprio pezzetto di croce”. Bellissime frasi come “le tue lacrime riempiono il rosario ai tuoi piedi, il mio tempio di ossa”. Viaggia parallela con Jesus Was An Only Son.
Mi è parso strano che Radio Nowhere non è stato anche il titolo del disco, al momento mi pareva una cosa quasi ovvia, un bel titolo, un bel pezzo per aprire, forte e potente, e infatti Magic canzone si stacca subito da quanto sentito fin’ora, ha più il sound dei lenti di The Rising ed il cantato di Tom Joad e D&D. Il giro sotto porta fino a I’m On Fire (sentire organo e mandolino nella coda di questa appunto e non solo, anche la durata). Ma la forza del pezzo sta nel testo che da assolutamente chiaro nelle prime strofe si fa alquanto difficile alla fine, dove la magia pura dell’inizio che è gioco diventa nera, di fuoco e morte. E allora invece di prendere quello che conosci e andare sul sicuro, ti conviene prendere quello che ti fa più paura, là dove non sai se credere alla bugia che diventa realtà o alla realtà che diventa una bugia. Ascolto dopo ascolto diventa fondamentale.
Last To Die rispolvera le chitarre di Roulette e i personaggi di Nebraska/Johnny99. Ci sono cuori spezzati e sangue versato, chi siano gli esecutori, se due assassini alla Natural Born Killers, due sicari o soldati in viaggio che ascoltano gli ordini per radio, non interessa, perché il discorso diventa universale quando tiranni e re cadono nello stesso destino.
Long Walk Home ha un po’ troppo il sapore della ballata da fine concerto alla Land of Hope & Dreams. Nelle parole del padre che parla - “figlio siamo fortunati in questa città, è un bellissimo posto dove nascere….. quella bandiera significa che certe cose sono scolpite nella pietra, chi siamo, cosa faremo e cosa no”- mi pare ci sia anche il senso di Born In The USA.
Devil’s Arcade rimane un po’ pesante rispetto al resto, come lo era The Fuse per The Rising. La vita di un militare in guerra tra mattinate nel deserto senza nulla da salvare e le nottate a poker con i compagni. E al ritorno per gli eroi una casa solitaria e silenziosa, su una strada qualunque…
Magic ha tutto, tutta la musica di Springsteen e della E Street Band da trent’annni a questa parte, da Born To Run a The Rising infilata in ogni solco ed appena riconoscibile se lo ascolti con attenzione. La sotto c’è tutto, il sax, l’organo, il piano, le chitarre. E tutto questo solo dal vivo avrà lo spazio che nel 2007, su disco, non è più possibile trovare. E questa è la magia.
1 ottobre 2007 22.10
Ho letto e ascoltato, poi ho riascoltato e letto di nuovo. Che dire di un uomo che continua a stupirci, ad emozionarci, a farci battere il cuore, a farci riflettere oggi come allora, quando eravamo tutti più giovani e con molte più speranze e illusioni di oggi. E' bello ritrovarsi di fronte a un disco di Bruce, anche per questo. Perché è come ritrovarsi davanti a un amico che puoi anche non aver sentito per un po', ma che sai che è sempre stato lì con te, e per te.
Yo, brother.
I've listened intently to Bruce's Magic, of course I had read your Magic blog first, as you know.
It was nice to discover songs after someone tells you about them.
One thought though: what if Landau knew exactly what the CD was about, and decided to not mention it, so that the true meanings that Bruce wants to convey in his music and lyrics, somehow reach homebase in the brains of the casual listeners?
Maybe I'm wrong, but it's a possibility.
Keep 'em coming man,
Joe
Ho comprato Magic in Vinile, ed ho qriascoltato il disco dopo essermelo sciroppato in mp3...sono migliorati i suoni, ma di fondo a me pare un album irrisolto, alcune canzoni le reputo buone, altre hanno qualcosa che non mi va giù (Gypsy Biker, You'll Be ..), in generale manca quel passo epico che è la cifra dei dischi che amo, anche (soprattutto..) di quell'epica personale, sofferta, propria di Ghost e Devils...
Rimango dell'idea che queste tempistiche così meccaniche, dopo che per anni il nostro non aveva problemi ad uscire in ogni luogo e e tempo ("altri tempi" mi dice una vocina nell'orecchio...) sono il prezzo che Bruce paga per avere la libertà di potersi fare i tour acustici, uscire con la Seeger e fare DUE giri in Europa ma uno negli States, ero convinto che questa roba lui se la suona la mattina a colazione prima di riprendere i figli a scuola, ma la roba tosta la rende semplice fino all'osso, la scarnifica e ce la offre nella Madre Chiesa del concerto, da gran cerimoniere, da sciamano quale è: le canzoni di bruce scorrono come l'acqua dal fiume al mare, e qui di fiumi e di mari ne vedo pochi. E' un disco a mio avviso meno politico di Devils, delle Sessions e infinitamente meno di Rising: qui parla, altrove rivela. Il senso di mistero, quella percezione di City of Ruins, di Matamoros, di John Henry dove sembra che tu abbia afferrato la canzone, eppure qualcosa di chiarissimo ed irrazionale rimane, e ti spinge ad aprire il cuore e la mente, e ti chiedi come faccia questo folletto americano a dare luce a persone e storie cantate mille volte, ed ogni volta nuove, classiche, eterne, fresche...
In Magic c'è un senso di routine che non ho mai avvertito nei solchi di Bruce - HT era proprio brutto, voglio dire - la Estreet usata come turnisti di lusso, Big Man che una volta o l'altra ci lascia le penne. Dal vivo con ogni probabilità saranno micidiali, ma tengo nel fondo del cuore l'idea che uello di Milano sotto l'acqua sarà l'ultimo grande concerto a cui assisterò nella mia insignificante esistenza, mentre sono quasi certo che Bruce da solo o in formazione alternativa darà frutti strabilianti per 10 anni ancora, e realizzerà un disco di musica americana che ci ucciderà tutti... Magic realizza la cuoriosa parodia di rimettere insieme persone a cui Bruce "normale" o "lisco" non piace, e di trovare nuovi giovani fans affascinati da questo signore che ha realizzato un pezzo per la radio mica male...
(Chi sono, i nuovi Artic Monkeys, Arcade Fire ? Brus Sprinscome ?)
Ma penso che molti della vecchia guardia attenderanno in tranquillità il prossimo disco, forse più prossimo di quanto si pensi (altro collegamento non casuale con HT)
si, si ,si ..... sono convinto che sia un gran bel disco da ri-ascoltare live, aspetto milano e intanto mi godo Filadelfia del 5-6 ottobre....... Candy's room ! badlands ! .... grazie ancora una volta Bruce... ancora sensazionibelle .. ilcuore conta/, canta .
Se non avessi sentito il disco prima di aver letto questo tuo pezzo fantastico, avrei comprato il disco, l'avrei portato a casa, messo sul piatto (ho il vinile) e dopo essermi denudato, avrei iniziato a farmi una pippa. Invece non e' cosi. Di quest'album, i pezzi degni di Bruce sono solo 4. Ed e' gia' un buon risultato. Ok i testi, ma qua mi sembra di esser tornati al periodo dei cantautori in cui si celebravano i dischi piu' per le parole che per la musica. Io di Bruce ho celebrato e celebro i pezzi dove non c'e' distinzione tra parole e musica. C'e' distinzione tra budella e cervello.
Non sento budella se non i 4 pezzi. Magic ora c'e' ora non c'e' piu'. Suvvia.
Al concerto al concerto!
a Frà, ma chi sei, il roccastrong? beh, mi spiace per la tua pippa mancata (ci sarà modo e tempo - le occasioni non mancano mai), però vedo che hai compreso cosa mi ha spinto a scrivere. E' il disco nel suo insieme. Perchè le parole di Bruce, oggi, sono sempre una bella forza. Una bella doccia e tutto il resto me li sarei concessi anch'io se dentro Magic avessi trovato un'altra New York City Serenade o Point Blank. Ma sto imparando a camminare in un mondo dove le macchine (tranne qualcuna molto vecchia che finisce a Santiago di Cuba) non mi piacciono granchè, dove fatico a comprarmi un paio di scarpe che me gustino e dove non c'è un solo politico che mi convincano del tutto, nemmeno quelli che sanno a memoria le canzoni di Fossati). In questo panorama riesco a chiudere un occhio se qualche canzone di Bruce Springsteen è un po' sub-standard.
Un po' ti capisco. Solo un po'. Ma The River ce l'abbiamo, no? chi ce lo tocca, quello!
Tana, Ermanno. Sono io. E' vero, abbiamo un sacco di cose belle di Bruce. E della nostra vita grazie anche a lui. Chi ce le potra' mai togliere? Sono partito molto critico su questo disco (vedi qua: http://www.m-o-d.biz/blog/C1271352729/E100254394/ ), per poi apprezzarlo di piu' nel suo insieme. Non tanto per la produzione che a me non piace per niente (bagna le pelli di Max, tira via la ruggine dalle chitarre che sembrano pomelli di palazzo, scimmiotta Spector in stile sanremese), quanto per lo sforzo riuscito in 4 pezzi sicuramente, di essere Bruce e la sua band ancora. Perche' ho pensato a questo disco ascoltato da quattordicenne speranzoso in una cameretta di una cittadina di un'isola lontana e non da cinquantenne quasi disilluso di una metropoli. Lo sto amando poi solo per ripicca a certe recensioni, che non parlano del disco, ma dei suoi fan, sbeffeggiandoli, offendedoli. E allora, alla faccia loro, io saltero' anche su Magic, il pezzo, che nummepiacepeggnente. A pugno alzato, come un ''reduce dagli scioperi contro l'industria automobilistica'' calpestando con le suole pine di merda il giornale di 4 pagine dei 4 intellettualini che si leggono tra loro. Al concerto! Al concerto!
magic ha superato le mie (scaramanticamente basse) aspettative
il primo ascolto e' traumatico poi cresce ed ancora non mi sono stancato di ascoltarlo , geniale l'accostamento di un sound pop-rock alle parole piu' dure mai scritte
forza Phantom
no surrender
Ciao Ermanno, grazie per i tuoi sempre illuminati commenti e grazie per aver contattato me e tutti gli altri che non sapevano dell'esistenza di questo tuo blog (si dice cosi'? sono rimasto all'eta' della pietra!!), ciao e grazie ancora, un abbraccio.
Bellissimo articolo! L'Ermanno scrive bene. Avevo 15 anni quando lo lessi la prima volta. Ora a 37 anni suonati, una casa e tanti sogni ancora da realizzare, so ancora accendere lo stereo nel silenzio della sera con il Boss a confortarmi col suo rock&roll pulito e senza compromessi. Ho amato pazzamente "Magic" ma solo dopo qualche ascolto. La sua musica mi è di conforto in questo mondo di incertezze e pazzie che pare relegarci nella solitudine di noi stessi...in attesa del 25 giugno a Milano, dove esploderemo tutti insieme al ritorno del Boss! Raise your hands! Andrea,Padova
Stavo cercando una frase in rete (Landau su Tracks due?) e sono finito su questa bella recensione di MAGIC, ormai un po' datata; giusto per rinverdire alcune impressioni (che vedo sono condivise da molti), il fatto che nel tour ormai in fase di chiusura le canzoni prese da MAGIC sono state via via ridotte a 4-5 per serata.... non significa qualcosa? Va bene che negli stadi magari qualche pezzo rendeva meno, ma è sempre un MAGIC TOUR o sbaglio? E il fatto che rimettere sul lettore THE RISING a distanza di anni dia ancora al mio cuore un non so che, mentre questo MAGIC (salvo i 4-5 ottimi pezzi a scelta di ognuno, ovvio) non abbia nel suo insieme sfondato più di tanto nel mio personale archivio/memoria? Speriamo nel seguito... Bruce ha dimostrato per l'enensima volta che quando sale sul palco può avere pubblicato anche una ciofeca ma IN QUEL MOMENTO (con la sua band, ESB o SSB o chi altro) te la ripresenta su un piatto di energia e sudore che fanno dimentucare tutto...
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