sabato 29 settembre 2007

DO YOU BELIEVE IN MAGIC? - Amore e Guerra nel cilindro di Bruce Springsteen



Ieri - 28 settembre - si sono presentati sul mercato due album: il nuovo dei Babyshambles di quel matto di Pete Doherty e il quindicesimo (in studio) di quel vecchio saggio di Bruce Springsteen.
Tra vent’anni la coincidenza verrà ricordata solo se nel frattempo l’inglese sarà diventato un artista rispettabile o se l’album del Boss avrà superato le copie vendute da Born In The U.S.A.
Ho seri dubbi che entrambe le cose possano accadere.
Sulle reali possibilità che il ragazzetto di Hexham possa rinsavire lascio azzuffarsi i suoi fan e i suoi biografi, sulle capacità di penetrazione del mercato di Magic si è già espresso Jon Landau.
Il manager di Springsteen, ovvero l’uomo che lasciò un giorno il suo desk da giornalista per diventare impresario e produttore di artisti rock, lo conoscono anche a Katmandu per aver centrato nel 1974 la previsione che il suo più importante assistito sarebbe diventato “il futuro del rock’n’roll”. Oggi corre seriamente il rischio che da Tucumcari all’isola di Capo Verde possa girar voce che non ne azzecchi più una.
Perché nei giorni che hanno preceduto la pubblicazione di Magic si è lasciato sfuggire, forse preso dalla stessa foga con cui ogni venditore lucida il pelo della propria bestia, che Springsteen aveva realizzato un album “ben suonato, molto leggero, immensamente godibile e nient’affatto politico”.
Non lo ha detto all’orecchio del suo gommista ma a un giornalista, che ha prontamente pubblicato. Per questo va preso sul serio. Così torniamo dubbiosi, perché prima di tutto un vero album di rock’n’roll raramente è “ben suonato” (e se lo è non si dice, perché usa nel pop, e sta bene per Gaucho degli Steely Dan, non per Exile On Main St. dei Rolling Stones). Poi, a costo – se smentiti - di ripartire dal via nel Monopoli del Rock, azzardiamo che queste canzoni non sono leggere (nient’affatto), che l’immensa godibilità (nel senso di spensieratezza) è semmai prerogativa delle carezze doo-wop dei Crests (Sixteen Candles, presente American Graffiti?) o delle canzoni pubblicate dai Beatles prima di Revolver. In ultimo, una certezza da non trascurare: le intenzioni e i testi di questo Springsteen sono politici, come sempre.

Chiedere a Pete Seeger, a Steve Earle, a Billy Bragg se con la condanna, l’indignazione, la collera poi si vendono i dischi in quantità tali da poter accedere al podio della Top Ten. Ascoltando le canzoni di Magic viene il sospetto che il sottotitolo che Landau ha voluto dare all’album – “allegro e disimpegnato” – nasconda in realtà la volontà di non inibirsi del tutto quella fetta di pubblico che ai tempi del Vote For Change, quando Springsteen prese posizione spalleggiando il candidato democratico alla Casa Bianca John Kerry, gridava al suo idolo con la chitarra Fender al collo di “chiudere il becco e continuare a cantare” (ovvero l’inelegante “shut up and sing” che non si dice a nessuno, tanto meno a un Boss di cuore e di pensiero). Descrivere queste composizioni per quello che non sono, anche quando, come Livin’ In The Future, si mettono la maschera del pop frizzante che galleggia a metà strada tra la Stax e Hungry Heart, significa far loro un grande torto.
Proprio lì, in quel pezzo che sembra possedere il sacro fuoco del soul che ha messo nella penna di Springsteen le Tenth Avenue Freeze-out e le tante gemme lavorate per Gary U.S. Bonds, non si fatica a trovare parole ruvide e il definitivo tracollo del Sogno Americano, o dell’ennesima versione ricarrozzata di quella vecchia macchina che ogni tanto da quelle parti qualcuno prova a rimettere in moto.








“Un vento malato ha recapitato una lettera / parla di me e di te / come di due estranei / ma prima o poi doveva capitare / e io mi sono fatto cieco e muto / come quando ci baciamo”.
La prima tirata d’orecchie è morbida, scritta per salvare l’orgoglio e i gioielli di famiglia dalle malelingue che avevano velenosamente diffuso voci (smentite) di separazione tra Springsteen e Patti Scialfa. Poi si aprono le finestre di casa, con affaccio su una vita che a molti presenta difficoltà ben superiori, e sono colpi di fucile diretti a una classe politica che sta a guardare. La voce di Bruce sembra far risuonare tutto il malumore di chi ha dovuto accettare che George Bush restasse al suo posto davanti a un Kerry sconfitto (“ho aperto il mio cuore per te / ne ho ricavato solo danno / la mia nave chiamata Libertà si sta allontanando / verso un orizzonte rosso sangue”). E’ leggero e nient’affatto politico un album che piazza lì, funerea, l’immagine di un sorvegliante che “apre i cancelli ai cani inferociti”? E' desolante o no parlare di qualcosa di "virtuoso" (l'espressione “righteous” compare nel disco più volte) che sta “colando a picco”?
A volerle interpretare in un certo modo, le parole di Springsteen suonano proprio come il lamento - più deluso che rabbioso - di un'America che si sente tradita.
Ecco, Livin' In The Future - ognuno la metta come vuole - è una canzone sul tradimento, e ben riflette lo spirito dell'intero album.
La meraviglia in tutto ciò è l'agrodolce del ritornello, che in molti intoneranno “spensierati” (ma in concerto vale tutto: quella è casa delle emozioni, dei pugni in alto, delle corde vocali portate allo sfinimento, guai ad intaccarne la sacralità) ma che in bella sostanza si tuffa nel sarcasmo e ripete “non preoccuparti, dolcezza, mantieni la calma / stiamo vivendo nel futuro / nulla di tutto questo è ancora accaduto”.
Springsteen non è affatto tranquillizzante né musicalmente accondiscendente, qui. Non avrebbe scelto certi scenari e non avrebbe affidato la matematica perfetta della sua E Street Band a quello scienziato pazzo di Brendan O’Brian che quell’aritmetica spesso nega, intubando voci e tastiere, avvolgendo il prezioso sassofono di Clemons attorno alle chitarre come un filo di cachemire attorno a un ferro arrugginito, incastrando talvolta la voce del Capo (accade in You’ll Be Comin’ Down più che altrove) in un groviglio di suoni che richiede al pubblico maturo del classic rock uno sforzo che forse non sa permettersi. Il produttore formatosi con il suono roboante e livido dei Pearl Jam non fa sconti quasi mai, ma è questo a fare di Magic un disco competitivo come mai riescono ad essere, oggi, le opere dei tanti dinosauri del rock che lasceranno la scena solo a sassate.

Se Bruce e i suoi boys, che non lavorano più come la band di un tempo ma fanno tesoro dell’esperienza e dell’abitudine a scaldare le valvole velocemente, avessero replicato le loro trame più abusate chissà le sculacciate dalla critica. Il tempo trascorso insieme nei Southern Tracks Studios di Atlanta è stato poco rispetto alle sgroppate dei tempi di Darkness e The River, quando sei settimane bastavano forse a incaponirsi su take multiple di una stessa canzone e a capire che quel pezzo – parole di Boss – “non era utile al contesto”, così più che proteggere a spada tratta il pedigree la E Street Band si è lasciata guidare da nuovi canoni, non del tutto esplorati ai giorni del più conservatore The Rising. Da questa inedita disponibilità a sacrificare il pregio delle individualità è sgorgato un suono in alcuni episodi molto complesso, quel Wall Of Sound che Bruce cercava in Born To Run e che qui davvero trionfa ed è luminosamente geniale.
Quando parte Girls In Their Summer Clothes, calata in uno scenario che sa di boardwalk e passeggiate ricordando i Drifters, ti aspetti una Lonesome Day, ma il cantato conduce altrove, tra le pieghe (“magiche”, come altro definirle) delle più elaborate evoluzioni di Brian Wilson, con o senza i Beach Boys. Sono archi, campanelli, muri di chitarre e cori celestiali ad ornare questa imprevedibile composizione, che si tuffa negli anni Sessanta, un suono che paga sempre se le corde da toccare sono la rassegnazione e il rimpianto. In questo, Girls è sorella di Long Walk Home per come i protagonisti riavvolgono il nastro della loro memoria. Se in questa Glory Days vent’anni dopo (le “ragazze in abiti estivi passano veloci” hanno la stessa valenza dei “giorni di gloria” che “ti passano sopra la testa alla velocità con cui una ragazzina sbatte le ciglia”) è tenue il rammarico nei confronti di una giovinezza sfuggita inevitabilmente di mano, aspro è il commento dell’uomo che in Long Walk Home (un reduce?) mette in fila tutte le difficoltà di un rientro a casa, in quella small town dove il barbiere di South Street “non lo riconosco più”, il diner dell’angolo è fallito e il campo dei Veterani osserva silenzioso dall’alto della collina. Scene da Born In The U.S.A. e Shut Out The Light, scene da Vietnam, che ritornano ossessive come colpi di mortaio. Su cadaveri e uomini svuotati c’è ora il marchio dell’Iraq, ma la ferita della guerra è la stessa. Il passo qui è dapprima lento, serve a raccogliere il peso del dolore seminato per strada, poi – ed è quello che accade anche in Gypsy Biker (profumo di Lucky Town, tra armoniche e chitarre col vibrato, per la storia di un combattente che non è tornato più) – la band gonfia il petto, e tutto si fa più tumultuoso. Era accaduto in altre war songs del passato (Souls Of The Departed).

Nella canzone che dà il titolo all’album, forse la più enigmatica del lotto, Springsteen compone nella vena di The Ghost Of Tom Joad, infilandosi in quel solco country celtico che lo fa assomigliare al Mark Knopfler solista. Sembra di vedere il cappellaio matto, quello che in un video di Tom Petty (Don’t Come Around Here No More) faceva a fette Alice, torta tutta panna da leccarsi i baffi. Nessun Paese delle Meraviglie qui, qualcuno avvisi Landau e qualche recensore distratto che potrebbe cadere nel tranello: l’illusionista di Magic ci invita ad avvicinarci, propone di far scomparire la moneta che ha in mano, avvisa che potrai pensare a una carta e lui tirerà fuori proprio quella dalla sua manica, ma nel cilindro nero sembra di scorgere dietro al coniglio l’America dei tranelli e dei trucchi che nella vita vera non riescono. E’ un modo nemmeno troppo velato, quello scelto da Springsteen, di comunicare tensione, insoddisfazione, paura. Basta leggere bene e certe frasi – “non fidarti di quello che ascolti, meno ancora di quel che vedi”, oppure “la libertà che hai cercato oscilla come un fantasma tra gli alberi” – passano da parte a parte, lacerano davvero, altro che la spada innocua di un maghetto. Per chi avesse dubbi, o avesse creduto di ascoltare un brano della Electric Light Orchestra, basterà l’ultima scena, con quei campi di battaglia dove portare con sé “solo ciò di cui si ha paura” e dove sotto a un sole che cala lentamente ci sono “corpi che penzolano dagli alberi”.

In un disco che rovista con agile curiosità nel campionario di casa Springsteen non manca l’energia di brani oscuri smarriti ai tempi di The River: The Last To Die ha il passo di Roulette e si chiede di chi sarà “il sangue che ancora scorrerà”, di chi “il prossimo cuore pronto a spezzarsi”, chi sarà il prossimo “a morire per un errore”; Your Own Worst Enemy potrebbe essere una b-song degna di Tracks, avvolgente e cantabile come lo era stata None But The Brave, ma l’orchestrazione da Oscar, l’impasto sapiente delle voci (ancora Beach Boys), il rintocco austero di una campana in lontananza, l’Hammond elegantissimo le conferiscono una classe di categoria superiore. “Il tuo peggior nemico sta arrivando in città” è l’ennesimo confronto tra epoche diverse (“tutto si è capovolto”), ieri e l’oggi che si guardano in cagnesco, la pace e la sicurezza di un tempo a sfidarsi a duello con tutta l’incertezza che regaliamo ai nostri figli insieme al dono della vita. Colpisce l'emissione vocale quasi tenorile adottata per le ultime parole del brano (“la bandiera un tempo restava dritta, puntata verso il cielo”) perchè propone uno Springsteen inedito.

In questo contesto, così vario e in alcuni passaggi addirittura respingente (tanti gli ingredienti, e molto – come sempre – affiora solo dopo tanti ascolti), un pezzo come Radio Nowhere, lanciato come singolo in un sistema discografico in cui il singolo in realtà non si capisce più cosa sia (un pezzo che non viene nemmeno venduto?, un clip che non va in rotazione televisiva?), rischia di apparire un corpo estraneo. Poi anche i suoi cliché (la scrittura prevedibile, le chitarre già sentite) svelano un’attinenza con il resto. L’uomo che con un approccio quasi punk urla “c’è qualcuno ancora vivo lì fuori?” sollecita una reazione, scuote la coscienza di ognuno di noi. E’ la voce di una radio persa nel nulla che ha ancora la forza di indicare cosa è giusto fare e cosa no. E’ il Live Earth personale di un singolo individuo, Bruce Springsteen, che se canta I’ll Work For Your Love, bellissima, riesumando vecchie formule senza cedere troppo alla nostalgia, ti mette i brividi ed è convincente come quando con la Seeger Session Band prese un vecchio blues di Albert Reed (How Can A Poor Man Stand Such Times And Live?) e lo fece diventare una canzone d’amore per New Orleans travolta dall’uragano Katrina.
Di amore si torna a parlare in Devil’s Arcade. E' l’amore di una donna che accoglie il suo eroe – un altro eroe segnato, fiaccato, impaurito e fragile - e lo riporta a una vita normale, fatta di mattine da mettere in fila e colazioni da preparare. Ma lui si addormenta sognando i suoi “compagni” Charlie e Jim, e l’odore di un deserto di guerra non abbandona la sua pelle.

Tanto prodotta e “costruita” è Devil’s Arcade (è lo Springsteen “sperimentale” di Missing e Lift Me Up ad agire da queste parti) quanto scarna e primitiva suona Terry’s Song, traccia nascosta aggiunta sul filo di lana. Springsteen l’ha scritta in estate, la notte dopo la morte del suo vecchio amico e assistente Terry Magovern, una montagna d’uomo che lo ha preceduto ovunque in una vita di concerti da stadio e piccoli club. Voce, pianoforte, una chitarra acustica e poco altro per Terry, uomo di forza e sentimento, un marine, un biker, uno di quelli davvero “ultimi a morire”.
“L’amore è più forte della morte, come le canzoni e le storie da raccontare”, canta Bruce forse con gli occhi ancora arrossati. Verrebbe da chiedergli dove trovi la lucidità, la voglia, il talento per far confluire nell’ultima canzone, coda non prevista di un album da cui appare lontana anni luce, tutto il significato dell’album stesso.
E si potrebbe aggiungere, osando, se davvero pensa che questo suo ennesimo capolavoro di impegno, realismo, integrità e commovente passione, se queste canzoni ancora una volta a misura d’uomo, se tutto questo sia il bagaglio di un artista alle prese con un lavoro “molto leggero e non rivolto alla guerra”.
Ma in fondo è giusto che ognuno di noi - specialmente Landau, il più vicino alla fonte - pensi quello che vuole. L'augurio è che Springsteen non faccia come l’incauto venditore di illusioni, che promette magie e mescola mazzi di carte tutte uguali: potrebbe lasciarsi prendere la mano e farsi scomparire, insinuandoci il dubbio che non sia mai esistito.
Ed è un rischio, quello, che non vorremmo mai correre.

giovedì 27 settembre 2007

LIFELINE: comunicazioni vitali da Ben Harper


Harper pubblica con frequenza e qualità sorprendenti. Gli anni in cui doveva affermarsi avendo in dote le note più urgenti e i temi più freschi da trattare sono passati, il ragazzo avrebbe meritato indulgenza se avesse chiesto di rallentare. Invece si conferma ad ogni uscita come la più brillante certezza di quell’universo che abbraccia il rock più classico e istinti da underground. Rispettato, lucidamente infallibile, impegnato bravo e bello, Harper sembra la rockstar perfetta per i nostri tempi, e forse lo è. La sua migliore qualità risiede nel modo sobrio ed elegante di affrontare lo studio di registrazione. Passata la sbornia di reggae, hip hop, ritmi africani e punte di elettronica, oggi i suoi album hanno il passo di quelle produzioni che non si fanno più, l’avvolgente calore di certi capolavori primitivi. E’ lecito pensare che se gli Stones di Beggar’s Banquet e la Band di Music From Big Pink si fondessero, affidando il microfono a Otis Redding, il primo sussulto sarebbe Fool For A Lonesome Train. E anche quando si spalancano le porte di Need You Tonight e Heart Of Matters la sensazione è di trovarsi al Monterey Pop Festival anziché al Bonnaroo.
Lifeline, nato a Parigi, è un raduno di emozioni che arrivano da lontano ma parlano il linguaggio indignato dal mondo di oggi.
E.L - da Rolling Stone # 47, settembre 2007