mercoledì 3 ottobre 2007

ROCK'N'ROLL HIGH SCHOOL FOREVER: pagine sui Ramones e storie di Punk quotidiano



El purtava i scarp de tennis, cantava in milanese nemmeno troppo stretto Enzo Jannacci. Di stretto aveva le spalle il ragazzino di cui cantava Francesco De Gregori, il Nino della Leva Calcistica della classe '68, quello con le scarpette di gomma dura. Scarpe sportive della musica leggera italiana. E all’estero? All’estero insieme alla gomma hanno inventato il rock’n’roll, e lì – vedi America – se dici rock’n’roll dici Converse, le scarpe con la stella, le scarpe delle All Stars, modello Chuck Taylor. Quelle che portava anche Marlon Brando sotto ai jeans con l’orlo rimboccato, quelle che penzolavano dalla chitarra di Bruce Springsteen in qualche manifesto dell’epoca di Born to Run: 1975, le Converse facevano furore. Soprattutto quelle dei Ramones.


Chiudi gli occhi e li vedi tutti e quattro – Joey, Johnny, Dee Dee e Tommy (ma ci fu anche Marky, entrato e uscito, poi rientrato, in sostituzione di quest'ultimo) – appoggiati a un muro di mattoni, con quelle scarpe ai piedi, le gambe magrissime (soprattutto Joey, lo spilungone del gruppo, voce inconfondibile) e i jeans sfilacciati. A turno, le portavano bianche, nere o blu. Ogni tanto spuntava una maglietta con su scritto “move or die”. Erano questi i Ramones, rock’n’roll all’insegna del movimento, a partire dalle scarpe, che a seconda del mood potevano anche essere le Keds, anch’esse americane.
Sono stati gli ultimi (o quasi) a farsi produrre da quel capellone matto di Phil Spector che adesso sverna in galera, furono i primi (o quasi) ad accorgersi che infilare un po’ di incazzatura in quattro accordi di rock’n’roll poteva portare all’invenzione del punk. Non che Eddie Cochran e Gene Vincent, solo due tra i tanti punti di riferimento dei quattro ragazzi di New York, non ne avessero avuta, di incazzatura, ai loro tempi, ma i Ramones e altri compagni di punk della seconda metà degli anni Settanta (anche e soprattutto quelli britannici, naturalmente) ci mettevano una forza di gola che nemmeno Elvis aveva. Ugole alla carta vetrata, quelle dei ragazzi - tutti - della leva rockistica del ’77 e dintorni, annate da bere tutte d’un fiato.

Era uscita tempo fa, per i tipi di Baldini e Castoldi, Please Kill Me, preziosa ricostruzione di quegli anni offertaci da Legs McNeil e Gillian McCain. Sottitolo - sempliciotto ma efficace – “il punk nelle parole dei suoi protagonisti”. In copertina, a torso nudo (naturalmente), Iggy Pop: in una mano una birra, l’altra affaccendata a rovistare tra i seni di Debbie Harry dei Blondie. Lei, meno fascinosa che in certe copertine del gruppo, protendeva la lingua a cercare i capezzoli di lui. Anche questo è stato il punk: "rottura", anche attraverso l’immagine e le immagini, con ciò che avevamo visto, e sentito, prima.
Alla fine del libro, interessantissimo e completo, c’è un capitoletto, un’appendice molto sbracata, giustamente intitolata “altre testimonianze di depravazione”. Richard Hell dei Television passa in rassegna le sue prime scopate (la primissima, a quindici anni, con la cameriera diciottenne di un Jerry’s Drive In di chissà dove); Iggy Pop ricorda quando le ragazzine lo fermavano per strada chiedendogli di poter verificare se le sue cicatrici erano vere (“i punti di sutura erano diventati di moda, mi facevano delle cuciture enormi e nere, con tutti i fili che spuntavano”); Scott Asheton, batterista degli Stooges, ripensa a quando Iggy si faceva a casa sua di acidi e Qualuude. Tra tante memorie, trascurabilissime per molti, preziose per chi quegli anni e quella musica li ricorda bene, anche quella dell’artista Duncan Hannah, che a metà anni '70 era fresco di Parsons School of Design (la più "in" di New York) e amico un po’ di tutti. Hannah ricorda il suo amico Eric Lee, dei misconosciuti Marbles, sorvolando sul fatto che fu lui a fare il primo provino a Patti Smith, ma indugia su altri particolari di margine (“nell’estate del 1975 a New York c’erano 40 gradi, bevevamo Duncan Scotch da 4 dollari e 50 al litro, era pessimo, la sbronza la saltavi a piè pari, appena bevuto avevi già i postumi”); poi dice ancora di Lee, e ricorda di quando il suo amico, omofonico ma disoccupato, scoprì che all’angolo tra la Cinquantatreesima e la Terza, a New York, era un via vai di prostututi, e finendo col fare i pompini in macchina per guadagnare molto di più di quello che la musica riusciva a dargli.
53rd & 3rd, dal primo album dei Ramones (1976), parlava di quell’angolo di strada dell’East Side, storie di droga pesante e sesso (“ero un berretto verde in Vietnam, ora ho altro di cui preoccuparmi / prendo il rasoio e faccio ciò che Dio proibisce”), dove un reduce di guerra si rade per bene e finisce sul marciapiede. Si possono scoprire anche testi di questo tipo tra la convulsa e breve elettricità di una canzone punk.

Ramones: la biografia ufficiale, messa insieme da Jim Bessman nel 1993 e tradotta prima dell'estate da Arcana per il nostro mercato, scava in profondità nello stesso solco tracciato da Please Kill Me, e sceglie - incastrata tra l'ottima prefazione e l'utile appendice di Federico Guglielmi (che ricostruisce gli anni 1993-2007) - di dirla tutta sulla vicenda dei quattro ragazzi partiti dalla Bowery, la strada dei poveracci, per conquistare il mondo con ruvide canzoni da due minuti e mezzo. Contavano quattro con la stessa foga con cui Ringo dava il tempo agli altri Beatles per I Saw Her Standing There, si facevano ritrarre davanti all’ingresso a quattro colonne della Casa Bianca in posa nient’affatto orgogliosa. Quel numero, il quattro, era una costante. Un discografico per denigrare la band sbuffò: “tre accordi, quattro giacche di pelle”, come a dire che in quegli anni di gruppi numerosi e di rock un po’ ampolloso per i Ramones non c’era posto.
Il posto se lo trovarono, e con loro tanti altri: si chiamava CBGB’s, angusto locale rock con affaccio proprio sulla Bowery, e lì la discografia americana pescò eccome. Mentre a Londra covava il fuoco del Punk, a New York si preparavano contratti per Blondie, Patti Smith, Talking Heads. E Ramones, naturalmente, che esordirono nel 1976 con il singolo Blitzkrieg Bop, centotrentaquattro secondi che oggi – a più di trent’anni di distanza – si ancorano saldi ad un onorevole 94mo posto tra le “500 più grandi canzoni di tutti i tempi” elette da Rolling Stone. Mica male per un gruppo con pochi numeri!

L’America si concesse col tempo, in Inghilterra capirono subito. Il New Musical Express scrisse “Il mondo ha bisogno del minimalismo dei Ramones. Ha bisogno di una band che ha distillato tutti gli orientamenti morali, politici e sociali nella frase ‘Gabba Gabba Hey’. E ne ha bisogno ora”. I Ramones sono stati i Beach Boys degli anni Settanta (sentire I Wanna Be Your Boyfriend) e non hanno smesso di esserlo anche dopo, quando sono riusciti ad attraversare con la stessa freschezza gli anni della Disco, dell’elettro-pop, del grunge e di mille scoperte di quella discografia che li avrebbe lasciati a marcire tra i rifiuti. Erano partiti da Forest Hills, un sobborgo del Queens che ospita anche lo Shea Stadium dove suonarono i Beatles, avevano iniziato anche grazie ad una batteria vinta con i bollini premio del supermercato King Korn. Tutto ciò a cui ambivano era provare a suonare come facevano Lennon e McCartney, Gary Lewis and the Playboys e gli Who. Tecnicamente, a quelle formazioni i Ramones si avvicinarono solamente, ma in quanto a furore le surclassarono, e considerando la veemenza degli show di Daltrey e compagni la cosa non è di poca rilevanza.

Questo e molto altro si trova nella dettagliatissima biografia di una band molto amata che non c’è più, e che ha salutato definitivamente tre dei suoi quattro membri fondatori. Degli originali, in questo mondo è rimasto solo Tommy, a rigirarsi tra le dita tanto passato senza il quale non avremmo oggi mille gruppi, Green Day in testa. Il carrozzone del disco che traballa sempre di più ringrazia, consapevole che nessuno scriverà più una Sheena Is A Punk Rocker.

3 commenti:

psicotic ha detto...

Non solo Tommy, anche Marky dai, malgrado sia entrato e uscito dalla band per il suo attaccamento alla bottiglia. Io, oltre ai libri che hai citato, ho aprezzato molto la biografia scritta da DeeDee "Sopravvivere ai Ramones", in particolare l'incontro con Sid Vicious in un bagno di un locale londinese, mi sembra il Rounhouse.
Per il resto Ramones tutta la vita, leggendo di loro ho capito che il rock'n'roll può essere un sogno realizzabile.
Mi piace il tuo blog..
Beppe Ardito.

Ermanno Labianca ha detto...

Beppe, grazie per la precisazione su Marky, che mi ha consentito un recupero "in scivolata". Come vedrai, nel pezzo ho trovato una nicchia anche per lui (meraviglie delle pagine elettroniche, stento ancora a crederci, io nato con le bozze di carta e i proto che battevano i testi). Lo avevo trascurato perchè in realtà intendevo riferirmi ai quattro "di base". Ma lo sai che ho capito chi sei? mi eri imbattuto nel tuo sito, quello con la mucca, un sacco di tempo fa. "Recensioni scritte da chi vuole", bella idea, anzi, una figata. E poi tra i tuoi dieci dischi preferiti del momento ce ne sono almeno sette che per me sono "top". Indovinali tu. Ciao, gabba gabba hey. - E

Anonimo ha detto...

Perche non:)