giovedì 23 aprile 2009

BOB DYLAN - Insieme attraverso una vita. Di grandi canzoni e di esibizioni svogliate.



Dovunque io mi volti c’è qualcuno che piange il Bob Dylan che non c’è più, quel meraviglioso artista che un tempo era (quasi) solo parole, poi è stato musica (bellissima) e perfino una bella voce (calda e incredibilmente profonda, anche se un po’ artefatta, quella di “Lay Lady Lay”). E’ stato folk ed è stato rock, ha colorato le sue cosette di reggae divertendosi e divertendoci, ha fatto il bluesman rubacchiando a destra e sinistra ma lo perdoniamo (come si può non perdonare Dylan?). Ed è stato, in tarda età, con “To Make You Feel My Love”, anche un meraviglioso signore del pop (chiedere a Billy Joel, che non è fesso, che l’ha incisa per un “Greatest Hits” infilandola tra le cose sue più belle – ognuno ruba come può). E’ stato anche, ai tempi di “Hard Rain” - con una piuma infilata nel cappello - un meraviglioso cowboy. Oggi, con quei due baffetti da sparviero che esibisce dai tempi di “Love and Theft”, con quelle mise nere di raso e i pantaloni con la striscia che corre lungo la gamba pare Zorro, e meno male che resta segaligno, altrimenti potremmo propendere per Sancho Panza.
Da quando sono lucido abbastanza per comprare i dischi di Bob Dylan, attendo quello nuovo sempre con la stessa ansia e con un'emozione che riconsoo quando la sento arrivare, ma da un bel po’ i suoi spettacoli mi lasciano sconcertato.


Ha un titolo, il next Dylan, che mi affascina non poco, quasi quanto “Blood On The Tracks” o “Blonde On Blonde”: “Together Through Life”. Insieme attraversiamo la vita, o qualcosa di simile, ognuno può trovarci una sfumatura diversa. Tutti ci siamo tirati dietro qualcosa nella nostra vita. I bambini hanno lo “straccetto” che gli fa da copertina di Linus, altri hanno un amuleto, altri ancora non si separano mai da un libro (che rileggono in continuazione) o da un disco. Oggi qualcuno infila tutto in un I-Pod, e legge, guarda, ascolta. Io quando mi è possibile vado ai concerti, che mi ricordano sempre qualcuno o qualcosa. Quelli di Dylan sono davvero “together through life”. E siccome l’ultimo suo concerto mi ha deluso e il prossimo è un’incognita, gioco a percorrere la memoria e a rivivere in cinque (cinque?) righe tutti gli altri, certo che qualcuno me lo perderò per strada.

LAY LADY LAY
Quella volta che ero davanti a un giradischi, nell’ampio salone di una villa al mare. Non è stato il mio primo concerto (la palma spetta a uno show delle Orme, credo, a Rimini, in un piccolo club che forse si chiamava Splash: avevo 7 anni all’incirca, mi ci portò mia madre, mi faceva impazzire “Mita Mita”, che il gruppo dedicava a Mita Medici, mi pare di averlo letto all’epoca sulla copertina del 45 giri), né il mio primo concerto di Bob Dylan, ma è come se Dylan stesse suonando per me. “Lay Lady Lay”, andatevela a riascoltare in questi giorni in cui Dylan raglia che è una bellezza, sembra provenire da un altro pianeta tanto è cantata bene, in modo inusuale per Dylan. Che voce. Calda, baritonale, quasi come quella di Johnny Cash, che nel disco (“Nashville Skyline”) canta con Dylan “Girl From the North Country”. Abbasso quelli che considerano “Nashville Skyline” un album minore. Avevo otto anni, mi ha aperto una porta gigantesca.

CHANGING OF THE GUARDS
Quella volta che andai vicino a Londra con il treno. Trovate la storia in un mio post del 2008. Io e un altro mezzo milione di persone accalcate sul prato di un aeroporto. Dylan tornava in Europa a dodici anni dall’incidente motociclistico del 1966 che gli aveva ingrossato la voce (dicono, e io ci credo quando ascolto quella “Lay Lady Lay” del 1968). La prima volta non si scorda mai. E io non la scordo. Anche se Dylan già allora (1978) maltrattava le sue canzoni immergendole ora in un bicchiere di reggae (“Don’t Twink Twice, It’s All Right”), ora inzeppandole di flauti sciocchini (“Mr. Tambourine Man”). Aveva le maniche a sbuffo, un buffo cilindro e si truccava gli occhi . Ma a me pareva Dio. Era il mio cambio della guardia: passavo dalla musica suonata a Villa Ada con i miei amici a the real thing. Non avevo nemmeno diciotto anni.

LICENCE TO KILL
Quella volta che Dylan cantò a Verona, all’Arena, e in conferenza stampa sfoggiava un cappellino di paglia che sembrava lo spaventapasseri della pubblicità Orzoro. Le foto, abbastanza inusuali, fecero il giro del mondo, e anche io, nel tentativo di arrivare quel giorno nella città di Giulietta e Romeo in permesso militare, feci una serie di giri e casini tali che arrivai tardi. Troppo tardi. Tre date a Roma, un mese dopo, mi misero in pace con la coscienza e con la caserma. Dylan era al secondo bel disco con Mark Knopfler (“Infidels”), così le sue canzoni, “direstraits-izzate”, avevano una gradevolezza di cui fare tesoro, anche perché nel decennio Bob si sarebbe trascinato un po’ stancamente, salvo quel brillante colpo di coda (“Oh Mercy”, 1989) accanto a Daniel Lanois, l’uomo U2. Al concerto, più che Dylan apprezzai Mick Taylor, quando Dylan lo lasciava suonare. Tornai a casa e ascoltai “Jokerman”, “I and I” e “Licence To Kill” per tutta la notte perchè sul nuovo disco erano più belle. E “Sweetheart Like You”, la mia preferita in assoluto, perchè in tre sere Dylan non era riuscito a farla una volta. Avevo ventitre anni. Ancora potevo sentire musica fino all’alba.


PRECIOUS MEMORIES
Quella volta che al Festival dell’Unità, in un pratone del Modenese, arrivò facendosi accompagnare da Tom Petty and the Heartbreakers, che incidevano all’epoca dischi più belli dei suoi. Uno dei suoi allievi aveva superato il maestro. Ma Dylan e quello scampolo di anni Ottanta in fondo non mi erano dispiaciuti. In quegli anni, Bobby aveva incontrato Dave Stewart senza fare troppi danni, aveva appena pubblicato l’ondivago “Empire Burlesque” (dove “I’ll Remember You” e “Emotionally Yours”, pur se erano la coda lunga del Dylan tutto casa e chiesa, facevano faville), poi si era messo addirittura a scrivere con Sam Shepard, vecchio amico dai tempi della Rolling Thunder Revue. Quando arrivammo - io, Roberta R., Graziano R., Mauro Z., Paolo A., ma ne dimentico almeno dieci - con orecchie fresche, freschissime, di “Brownsville Girl” (di Dylan/Shepard, era un capolavoro di gospel-rock), ce la godemmo non poco. Anche perché c’era abbastanza casino da non capire in che condizione fosse quel Dylan live. Ero nei miei Mid-twenties.

DON’T DO ME LIKE THAT
Quella volta che venne a Roma, dopo Modena. Il giorno dopo? due giorni dopo? Un mese dopo? chissà chi mi può aiutare. Ma erano quei giorni lì, di un tour pomposamente chiamato “Temples in Flame”. Al Palasport di Roma, quello del tour col cappellino di paglia, apriva Roger Mc Guinn, poi c’erano Petty con i suoi Heartbreakers, band fantastica, il miglior rock’n’roll del decennio, pari alla E Street Band. E fin qui un meccanismo perfetto, un orologio. Poi entra Dylan, col suo chitarrone bianco, e qualcosa gira male. Perché gli Heartbreakers se in mezzo, a dirigere il traffico, c’è il vigile del Minnesota, diventano in un attimo come Piazza Venezia a fine anno, o Piazza San Babila quando il Milan vince lo scudetto: un casino. "Don’t do me like that”, Dylan, te lo dico con la canzone di Petty. Non farmi di nuovo una cosa del genere, Dylan, che la prossima volta me la segno al dito. Quasi dieci anni di concerti di Dylan e, per ora, soddisfazioni abbastanza magre.
Il tempio va a fuoco. Sono un ventiseienne mediamente deluso, un’altra volta.

A HARD RAIN
Quella sera che al Parco Nord di Bologna Dio ha mandato tutta la pioggia che aveva. Ma non va così male. La devo raccontare. Io e Robby P. siamo ospiti, backstage, del bassista Tony Garnier, che è amico di un nostro amico. Per ripararci dalla temporale ci vediamo Van Morrison dal palco. A tiro di gomito abbiamo un tipo strano, ma strano un bel po’. Balla… ...mmm, vabbè... si muove a un ritmo tutto suo. Vedo jeans, stivali Frye, felpa inzuppata e cappuccio extra large. Spunta il naso, ma non è un naso qualsiasi. Quando capisco che è il naso di Bob Dylan, proprio quello di tanti disegni e di tante fotografie, dò una gomitata a Robby, che siccome fa il batterista sta percuotendo i tubi Innocenti su cui siamo appoggiati. Non ci crede, devo insistere. Insisto. Abbiamo visto Van Morrison accanto a Bob Dylan. Che poi ha suonato, ma giuro che mi ricordo poco, tranne una buona e rara “Man of Peace”. Tre mesi esatti e compirò 30 anni. Dunque: in meno di 30 anni ho visto Dylan 5 volte, e Dylan che guarda Van Morrison una volta. Mi poteva andare peggio.


A HARD RAIN part.2
Quella sera che interrompo una vacanza nelle pacifiche colline del Chianti per andare nel caos del Festival Blues di Pistoia. Ma suona Bob Dylan, e siccome ho saltato i suoi tour italiani del 1992 e del 1994, capirete... Un bel pezzo di strada, un centinaio di curve e io e un bel gruppetto di dylaniati siamo a Piazza Duomo. Un paradiso per freak, sembra Woodstock trent’anni dopo. Ci pensa Bucky Baxter con la sua pedal steel guitar a far capire che c’è poco blues e molto Dylan, il solito Dylan. Che per fortuna esegue in larga parte pezzi molto conosciuti, così - aggrappato a una rete metallica - sono persino in grado di fare bella figura con l’amico Gianni R., che deve fare un pezzo per un quotidiano ed è nel panico. Gli snocciolo un titolo dopo l’altro (compreso quello dell’orrida “Silvio”) e lui sembra improvvisamente uno che ha visto la Madonna. Lo incontro ore dopo in autostrada, non è messo meglio: è in moto, a centocinquanta all’ora, sotto una pioggia torrenziale. A pensarci bene, è passato un lustro esatto (7 luglio-7 luglio) dalla serata di Bologna. Tra due mesi il mio orologio dirà che ho 35 anni. Ma Dylan è sempre, in qualche modo, next to me. Come passa il tempo.

A LADDER TO THE STARS
Quella sera che Dylan sta per fare filotto ma non ci riesce. Se fosse stato il 7 luglio 1998, Bobby avrebbe fatto i suoi ultimi tre stop in Italia sempre il 7 di luglio. Un record difficile da battere. Invece è il 5, ma è lo stesso, a Roma, una serata speciale. Per una serie di circostanze che non sto a spiegare, mi telefona Fernanda Pivano che è a Roma per contatti con un editore. Vorrei andare a vedere Dylan, mi dai una mano? Io? Beh, ci sarei andato comunque, anzi ci sto lavorando. Offro la massima disponibilità. Puntualissima all’appuntamento come lo era quando traduceva Dylan, lei appare ed è come se mi si spalancassero le porte di un mondo. Mi passa davanti un film: la beat generation, Allen Ginsberg, Bob Dylan, Hemingway, Joan Baez, De Andrè che canta Dylan, la prefazione di "Sulla strada di Kerouac". Scendiamo uno ad uno gli scalini che dal palazzo della Civiltà e del Lavoro (la groviera mussoliniana) ci portano al retropalco di Bob Dylan. Non ci giurerei ma ci fermiamo a salutare Francesco De Gregori, un altro che non è lì per caso. Quando arriviamo alla roulotte di Bob la porta si apre come si sarebbe aperta se gli avessero detto che fuori c’era George Harrison. Mi trovo un varco tra gli speaker che si affacciano sul palco, mi faccio piccolo piccolo e mi vedo il concerto da lì. Accanto a me c’è Johnny Depp con Vanessa Paradis, ma non se li caga nessuno. Ho impiegato vent’anni esatti per vedere il mio più bel concerto di Bob Dylan (con “Man in the Long Black Coat” e “To Make You Feel My Love”, che Dylan ha scritto da poco ma sembra un classico). E intanto sono arrivato a quasi trentasette anni.


COUNTRY PIE
Quella sera che un posto più brutto non si poteva trovare ma tutti felici ce ne andiamo a Firenze a vedere Dylan in un brutto Palasport. Lo show è abbastanza “country”, tra virgolette. Sarà per l’accoppiata Charlie Sexton-Larry Campbell, ma vedo un’abbondanza di mandolini e chitarre slide. Così mi animo e dico, a voce bassa, “chissà… Nashville Syline, chissà”. Ho fatto bene, perché “Nashville Skyline”, quel disco che tanto mi piace, si materializza quando Dylan fa un cenno ai ragazzi e decide di suonare “Country Pie”. Buona proprio come la torta di Nonna Papera. Dylan da vicino inizia ad essere vecchio ma vecchio. Il mio amico Giovanni C., che scatta da professionista, mi farà vedere giorni dopo dei primi piani che – dice lui – per rispetto non si possono vendere a nessuno. Siamo da poco entrati nel nuovo millennio. Tempo un anno e mi aspetta il nastro dei 40 anni da tagliare. Con Dylan, tra pioggie e dolori, siamo quasi a 10 concerti in un quarto di secolo.


SUMMER DAYS
Quella sera che Dylan giocò a baseball. No, non è uno scoop. Non è successo ma fa un certo effetto vederlo suonare su un “diamante” del baseball. Siamo ad Anzio, dove sbarcarono gli americani e dove nel 2001, fresco di album nuovo, Dylan trova una grande platea di sedie ad aspettarlo. Il giorno prima mi era accaduto quello che mai più mi accadrà: ho atteso Dylan sulla porta di un hotel, l’ho visto arrivare a piedi, come uno qualsiasi, ho preso l’ascensore con lui, gli ho aperto la porta di una sala dove ad attenderlo c’era una decina di giornalisti, lì per parlare con lui di “Love and Theft”. L’unico che non gli ha fatto una sola domanda è stato quello italiano. Il giorno dopo, un’intera pagina di “intervista esclusiva”, con le domande di tutti gli altri. Capita a chi vorrebbe chiedere tutto a Bob Dylan così finisce per non chiedere nulla. Sarebbe potuto capitare anche a me. Ma non ne sono certo.
Ad Anzio, normale amministrazione. Come a Pistoia era stato un Blues Festival senza blues, qui è un Jazz Festival senza jazz. Anche se Dylan, ormai, è tutto, mescolato; perché nel nuovo album, dove nella foto di copertina Bobby sembra malandato ma all’interno pare un modello sessantenne, una vaga traccia di jazz c’è, specie quando in “Summer Days”, che insieme a Mississippi mi piace assai, si viaggia su una strada che incrocia Django Reinhardt e gli Stray Cats. Del concerto vorrei poter ricordare e poter dire di più, ma ho poco da ricordare e ancor meno da dire. Il Dylan live, se mai l’ho incontrato, l’ho smarrito da parecchio tempo. Il tempo che è bastato a portarmi a passi da gigante verso i miei 40 anni, che ora sono davvero dietro l’angolo. Bye bye Anzio, bye and bye Dylan. Torno a casa provato e con un paio di birre di troppo sotto la maglietta. Per fortuna che in macchina con me, insieme a un Dylan “che canta bene”, c’è Antonio R., così "rigo" dritto.


TOGETHER THROUGH LIFE
Quella sera che Dylan è tornato al Palaeur di Roma per la terza volta in venticinque anni gli ho dato buca. Chissà dov’ero. Brutto segnale. Ho dato buca anche ai tour italiani di Dylan nel 2005, 2006, 2007 e 2008. Per fare il padre. Ma è una piccola bugia, perché se fosse tornato una volta con The Band (o quel che resta) ad accompagnarlo, una volta con i Counting Crows, una volta con la E Street Band e una volta con i Subdudes sarei stato lì, I’m positive. E voi, avete qualche dubbio? Ma la solfa è sempre la stessa, ormai Tony Garnier ha alle spalle 2000 concerti (la sparo, convinto di non sbagliare troppo) di cui ai nipotini forse non saprà un giorno che raccontare. Se Dylan è in pausa da un bel po’ quando si confronta col palco, qualche pausa me la posso concedere anche io.
Ma quella sera – qualche sera fa – che Dylan è tornato ancora a Roma, dove l’ultima volta, mi dicono, aveva trotterellato per tutto il tempo dietro a una pianola, quella sera c’ero. La sera che sul calendario c’era scritto 17 aprile 2009 io c’ero. Per affezione. Per causa di una malattia incurabile. Per nostalgia. Perché sono uno che non butta le macchinine né i giocatori del Subbuteo, figurati se butto Dylan.
La verità più vera di tutte è che mi ero riposato dal solito tran tran del dylaniano “Never-ending-tour” per sette anni. Ci poteva stare che muovevo il culo e mi facevo dodici chilometri in Vespa per andare a vedere Dylan. Dylan, che da un po’ firma come Jack Frost la produzione dei suoi album tutti molto simili tra loro, mi accoglie – aiuto! - con la sua pianola. Il culo al centro del palco lo porta una volta per stiracchiarsi dietro a una chitarra e un paio di volte per sputacchiare dentro l’armonica. Se Dylan non è più Dylan da un bel po’, oggi lo è meno che mai. Temo che lui e Tom Waits siano clienti dello stesso laringoiatra pazzo. Solo che Waits sulla vociaccia ci ha costruito una carriera, Bobby la sua di carriera l’ha demolita con quell’insopportabile e svogliato raglio. Non importa che stia mortificando un monumento come “Don’t Think Twice It’s All Right” o provando a farci capire, a parole, che la sua band sta suonando “Boots Of Spanish Leather”: funziona tutto poco, e male.
Dylan un tempo era uomo di parole, quando la musica per lui era un accessorio con cui tenere impegnate le corde della sua chitarra acustica. Poi è stato anche un uomo di musica, bella. Adesso è tristemente un uomo di riff e ritmi. Si innamora di un giro, lo fa looppare a quegli asini della sua band (non che non siano capaci a suonare, semplicemente non sono capaci di ribellarsi o di andarsene) e dentro ci infila una sua vecchia meraviglia che di meraviglioso non ha più nulla. Ascoltare oggi Dylan dal vivo è come fare l’amore insossando tre preservativi, uno sull’altro, e di colori diversi. E’ come vedere un bel film dalla cassa, con il biglietto in mano e i popcorn ma senza superare mai le tende di velluto pesante. E’ come andare allo stadio e restare fuori a guardare la bancarella delle sciarpe.
Questa volta mi sono riportato a casa la lacrimuccia durante la centenaria “Like A Rolling Stone” (ci ho scritto un libro con quel titolo, come potrei rimanergli insensibile?) e un sorrisetto di simpatia per “Spirit On The Water”, scritta l’altro ieri ma copiata da chissà chi. Ho gioito senza darlo a vedere per Salvatore S. e Fabrizio B., chè erano soddisfatti della loro prima volta, quella che non si scorda mai. Mi hanno fatto pensare alla mia prima volta e a tutta la vita – bella - che c’è stata in mezzo, tra quei miei diciassette anni e i quarantotto, che ormai sono distanti dai cinquanta solo un paio di album di Dylan.
Quello nuovo, di disco, sta per arrivare. Dice “Together Through Life”. Non ho sentito nulla, posso aspettare, non ho voglia di rincorrerlo in giro per Internet, con Dylan non si fa. “Insieme attraverso la vita”, che bel titolo Mister Dylan. Cos’è, una minaccia? Vado a sgranchirmi un paio d’anni di là. Ci rivedremo. Lo so.

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La foto di Bob Dylan con il cappello nero è di Filippo De Orchi (17/4/09) - grazie!

martedì 14 aprile 2009

LOWLANDS - Chitarre, Bonarda e bourbon. Quando il buon rock americano e la musica d'autore dei "grandi spazi" arrivano da Pavia.


In between, ovvero in mezzo, ci stiamo un po’ tutti. Ci stiamo noi che ascoltiamo la musica americana, facendoci trasportare in Texas o in California ogni volta che ci arriva uno di quei dischi che hanno il potere di farci saltare l’Oceano; e ci stanno i musicisti, quelli che con piedi e chitarre sono ben saldi in Italia ma suonano, sognano, scrivono come se quel mondo tanto mitizzato fosse dietro l’angolo e non al di là del mare. Per la somma di questi motivi, in between ci stanno anche i Lowlands, attualmente la migliore banda italiana di american rock’n’roll. Ci stanno più di altri perché da Pavia guardano a ovest con la passione dei fan della musica (quelli, appunto, per cui un nuovo disco di Steve Wynn è sempre un evento) e con la comunicativa di chi la musica la fa con la speranza di portarla lontano. Mesi fa, i Lowlands mi fecero avere un loro demo, e poi un altro, e poi il loro prezioso esordio, Last Call (registrato – bene -tra Italia, America, Inghilterra e Australia), dove alla posizione 5 c’è “In Between”, in cui Edward Abbiati scrive e canta “you travel a million miles but never move on”. E’ una canzone di speranza e rammarico, di quelle dove il protagonista sembra immobile, stretto tra la voglia di andare e quella mano misteriosa che lo trattiene. Cinque minuti dolenti, alla Ghost of Tom Joad, incastrati con il loro violino e un accompagnamento essenziale di chitarre acustiche e pedal steel, in un disco bellissimo che altrove sprizza Americana, quella buona, celebrando – con personalità e originalità - le molte facce della canzone d’autore made in USA e il suono di tante band di cui questi ragazzi vedono la scia. Sul finire di “In Between” c’è una frase - “every now and then something happens” – che da sola sembra raccogliere ogni segreta ambizione di casa Lowlands. Se è vero che ogni tanto qualcosa succede, qui di cose ne succedono e ne succederanno parecchie, e il merito è di una scrittura davvero brillante, che Abbiati, un pavese bilingue che ha sangue australiano nelle vene, supporta con un’interpretazione che dalle nostre parti – dove a cantare certe cose in modo così credibile sono in tre o quattro – è quasi impossibile battere.

Così capita di innamorarsi di “Leaving NYC”, canzone di viaggi e promesse, tra i momenti più toccanti del disco, dove il protagonista attraversa in Greyhound l’America delle mille facce (“intrappolate tra il sogno e la realtà, come me”, canta Abbiati), delle mille possibilità e dei mille tradimenti. Dove si scappa come ladri da New York, dove si plaude a quelli che ce l’hanno fatta e si piange chi è andato via per sempre, dove puoi “sballare” a Toronto e venire beccato a Buffalo, quell’America che quando serve manda giù una pioggia benefica a lenire il dolore. E’ l’America che abbiamo sentito cantare tanto a lungo da averne quasi noia, senza mai sapere per certo se arriverà un’altra canzone a farcela amare di nuovo. “Leaving NYC” è una di quelle, perché avrebbero potuto scriverla Willie Nile, Steve Forbert o Michael McDermott, e perché quella strofa in cui si esce dal Lincoln Tunnel per incontrare il New Jersey delle Turnpike, del fantasma di Sandy e delle thunder road non è solo un omaggio alla musica di Springsteen ma un crocevia di emozioni uniche che portano anche altrove. La completezza di questo disco e l’armonia delle sue intenzioni sono testimoniate infatti anche da quegli episodi di bellezza mista, come “Ghost of This Town”, poesia ibrida che sembra nascere nel garage dei Green On Red per approdare, giusto il tempo di finire il primo verso, dalle parti degli Hothouse Flowers, in quella terra d’Irlanda che dalle nostre parti è il primo oblò attraverso cui si vede davvero l’America. Tra notti scure, cieli color arancio, angoli di strada, la luce pallida di una luna piena, venerdi in cui fare festa (due canzoni si abbracciano grazie a questo tema, “Friday Night” e “That’s Me On The Page”) e spiagge davanti al Pacifico si consuma il più bel disco di american rock prodotto dalle nostre parti dopo la favola troppo breve e ormai lontana degli emiliani Rocking Chairs.


Prendete ognuno di questi brani e fatelo vostro senza indugio, per ritrovarci i Dream Syndicate che non ci sono più (“What Can I Do”) o per godere di qualcosa che non assomiglia a nulla se non ai Lowlands (“38th & Lawton”), perché la bravura di Abbiati (voce, chitarre e ottima produzione artistica) e di chi viaggia con lui (il bassista Simone Fratti, il batterista Paolo Maggi, la violinista Chiara Giacobbe e i chitarristi Simone "John" Prunetti, Stefano Speroni e Francesco "Lebowski" Verrastro, più ospiti vari e nobili, tra cui Chris Cacavas e Nick Barker) è proprio nel rasentare i muri maestri della musica americana o percorrere le strade di retrovia aggiungendo i propri colori, cosa non sempre facile come appare qui. Già segnalati, con merito, da magazine e siti americani, i Lowlands sono una bella scommessa che parte dalle nostre campagne dove si beve la Bonarda per arrivare a stordirsi nella terra dove whisky, bourbon e birra scorrono a fiumi.

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Sapere i Lowlands impegnati tra breve (il 17 aprile) a Spaziomusica di Pavia, la loro Asbury Park, mi fa venire voglia di rubargli di nuovo le parole e fargli una pinta di auguri, certo però che questi rocker di pianura, raccolta l’ultima chiamata, siano già partiti.
Every now and then something happens…

www.lowlandsband.com