mercoledì 30 luglio 2008

PAUL SIMON, LA SUA AFRICA E MOLTO ALTRO. Il concerto romano di un totem della musica pop.


Si fa davvero fatica a trovare, tra i viventi che scrivono la musica pop, qualcuno che possegga le doti di Paul Simon. Bastano, forse, solo le dita di una mano a contarli: Paul McCartney, Stevie Wonder, James Taylor, Billy Joel. Scendere per la strada dei Leonard Cohen e dei Randy Newman significherebbe infilarsi nell’imbuto dell’elite. Invece Simon resta lì tra quelli che sanno essere pop-olari nel senso pieno del termine. Lo vedi quando la sala si alza a tenere il ritmo di You can call me Al, replicando le movenze buffe che nel videoclip di allora furono di Chevy Chase e dello stesso autore. Lo intuisci quando Mrs. Robinson non si muove più come una teenager ma mostra i segni belli del tempo che è andato, eppure la platea ne segue la traiettoria nuova con la stessa pazienza che hanno i fanatici di Dylan quando Blowin’ in the wind ti passa davanti e te ne accorgi solo perché le parole sono rimaste le stesse. Ne sei completamente convinto quando le note di The sound of silence ci portano tutti in un'altra vita, più avventurosa e spensierata. Fa nulla che sotto la crosta e la cura degli arrangiamenti le canzoni di Surprise (l’album più recente del newyorkese) si scoprano con il fiato corto e camminino un po’ goffe tra tanta bellezza: la grandezza di Paul Simon si misura attraverso il valore di un repertorio che può anche accollarsi le Outrageous e le Father and daughter di turno senza che si registri – miracolo – un decremento della qualità complessiva.
Quello che poche ore fa ha raccolto a Roma l’ovazione e il tutto esaurito della Cavea, meraviglia a cielo aperto incastrata sotto ai tre imponenti auditorium coperti che completano il Parco della Musica, è un artista irreplicabile.


Piccolo come Danny De Vito ma al tempo stesso alto come un totem della musica leggera, Paul Simon ha pazientemente raccolto grazie al contributo del suo eccellente gruppo multirazziale di musicisti il meglio di quanto ha saputo darci in quarant’anni di musica. Che è oggi un generoso juke-box pronto a rovesciare in uno stile unico le tante diverse intuizioni che hanno attraversato una discografia davvero luminosa. L’ex Tom del duo Tom & Jerry (l’altro era un giovanissimo Art Garfunkel, si parla di anni Cinquanta) si è ricavato uno spazio inattaccabile, un’impronta riconoscibilissima, nella roccia di tante culture che è andato a stuzzicare negli anni. Oggi può accadere che nello stesso pezzo coesistano un certo urban jazz newyorkese e il folk irlandese sputato da un minuscolo pennywhistle che spunta tra le dita di un chitarrista, oppure che l’Africa tanto accarezzata ai tempi di Graceland (cinque stasera i pezzi da lì presentati) si fonda meravigliosamente con il Salsa di Late in the evening.
A mangiarselo con gli occhi, il piccoletto di The boxer, c’è anche Walter Veltroni, uno che alla buona musica, di ogni tipo, fa sempre largo nell’agenda e che in quell’agenda aveva segnato un giorno, reduce dall’ennesima missione in Africa, il buon proposito di trasferirsi “a fine carriera politica” nel Continente Nero per svolgere un ruolo sociale. Mentre l’ex sindaco già stringeva mani, lo show di Simon infilava un numero Zydeco con tanto di washboard sul palco a stendere un altro strato – questa volta la musica della Louisiana – sull’impressionante ricchezza sonora riversata sulle migliaia di presenti.
In due ore i fan più o meno illustri del songwriter americano, raccolti in uno scenario di insuperabile bellezza e funzionalità, hanno riabbracciato un artista e un repertorio che sono cari anche a chi non c’era.
Per rubare una frase a Boy in the bubble, forse non saranno più i “giorni dei miracoli e dello stupore”, non lo sono più per il mancato premier e per un pubblico dai buoni sentimenti (perché la passione per certa musica, in casi simili, può rivelare l’orientamento politico, o no?), ma una serata così, arrivata a placare l'afa e non solo, merita un posto duraturo nella memoria.

Thanks a Filippo De Orchi per le foto

giovedì 17 luglio 2008

ME AND BOBBY D, IO E BOB DYLAN / Un ricordo lungo trent'anni. E poi i Dire Straits, il Punk e la gioia di esserci, a qualsiasi costo.


Oggi mi regalo un ricordo che mi è molto caro. Anzi, lo spolvero. Ci pensavo un paio di giorni fa, il 15 luglio. Trent’anni, mi sono detto. Sono passati trent’anni da quando ho preso il treno per andare a vedere per la prima volta Bob Dylan. Era il 1978. Il ricordo, ancora vivissimo, mi serve per lasciare su carta una delle tante storie che un giorno, forse, raccoglierò in un libro chiamato “Sogni di rock’n’roll” (Luciano Ligabue, do you mind?). Storie vere, che viste oggi attraverso gli occhi del tempo che scorre paiono sogni.
1978, dunque. Due amici, due grossi sacchi a spalla, un solo treno, ma per Londra, mica un posto qualsiasi. La vecchia Londra il caro Bob l’aveva lasciata nel 1966, suonandoci, e non ci era tornato più dopo quel brutto incidente in moto in sella a una Triumph Bonneville.


Mancava dall’Europa da dodici anni, cinquanta lunghissime stagioni rock in cui era successo di tutto. In ordine sparso: la morte di Hendrix, Woodstock, lo scioglimento dei Beatles, Elvis che "lascia il palazzo" definitivamente ed anche, per restare dalle parti di Oxford Street, l’avvento del Punk. Per alcuni era l’estate di “Darkness On The Edge Of Town”, di "Night Moves" dell'alta temperatura Disco di “Saturday Night Fever” e di “Miss You”, che faceva ballare anche chi amava il rock. Per altri la "febbre" arrivava dai dischi dei Clash, dei Damned e dalle "truffe rock’n’roll" dei Sex Pistols. Erano quelle le punte di diamante di un movimento fatto per restare, non una moda passeggera. Appena più sotto, ma ugualmente grandi, gli Sham 69, Cherry Vanilla, Eddie And The Hotrods (che bella la loro versione di “The Kids Are Alright” degli Who) e tanti altri valorosi casinisti.
Victoria Station, il porto di arrivo, ma soprattutto la suburbia londinese che io e il mio amico potevamo permetterci, facevano un po’ paura. Tutte quelle creste, la pelle nera dei pantaloni, i visi incazzati e l’intera l’iconografia Punk digerita attraverso i giornali e le stupide pubblicità delle case discografiche di allora (che stupide sono rimaste nel tempo, fino a morirci di stupidità) mettevano un po’ paura a due minorenni che ventiquattr’ore prima di salire su quel treno erano sul prato di Villa Ada, a Roma, ad assistere ad un concerto gratuito di Edoardo Bennato.
I miei occhi avevano già visto l’America, nel 1974, e i miei timpani avevano già registrato il suono delle sirene della polizia che a Boston e New York non smettono mai di farti credere, soprattutto di notte, che dietro l’angolo abbiano ammazzato qualcuno. Per le strade di Londra però viveva una tensione mai provata prima. Scary, but really good. Dopo un po’ quei tipi con le lamette agganciate ai pantaloni e le spille da balia infilate nelle guance diventarono parte dell’arredamento, così giù, sereni, a dare sfogo al programma scritto per bene su un foglio di carta, durante quel viaggio interminabile su rotaia con sosta parigina.


Un giorno eravamo a scattare fotografie al 90 di Wardour Street, davanti al glorioso Marquee, che avevamo eletto a tappa irrinunciabile del primo pellegrinaggio rock delle nostre vite. Porte aperte, nessun controllo, era pomeriggio, l’ora giusta per intrufolarsi e sentire il soundcheck della band che avrebbe suonato la sera. Cazzo che bravi, e che tocco sulla Stratocaster quel tipetto smilzo che a giudicare dai pochi capelli deve essere al termine della carriera. Sembra di sentire Bob Dylan con Eric Clapton alla chitarra elettrica. Una premonizione, visto che a giorni ci aspetta il concerto di Dylan nel Surrey, con Clapton fresco di “Slowhand” (l’album con “Cocaine” e “Wonderful Tonight”), Graham Parker and the Rumours, Joan Armatrading e altri a fare da apripista.
Una premonizione o una incredibile botta di culo per i due ragazzini finiti lì per caso, fate voi. Noi eravamo lì a raccogliere qualche briciola della gloria che quel locale aveva messo in scena negli anni Sessanta. Ci bastavano quelle, non avremmo osato chiedere di più. Quando rivolto al tipo smilzo, il chitarrista dagli occhi buoni e celesti, feci “come si chiama la tua band?” non colsi il nome al volo. Per avere più chiare quelle due parole dovetti strappare la copertina, vuota, del loro primo album (altro che fine carriera) dal muro dove era spillata, insieme ad altri esemplari tutti uguali di copertina destinata ad entrare nella storia del rock: ecco, Dire Straits.


“Tornate stasera, vero?”, incalzò il chitarrista. “E come no!”
La sera concerto strepitoso, di quelli da tornare a casa e convincere tutti a comprare l’album degli ennesimi sconosciuti che “guarda, sono fortissimi, li ho visti a Londra”! Chissà se Mark Knopfler avrebbe mai immaginato che quei due ragazzetti spaesati, per giunta italiani, una volta uscito l’album anche in Italia avrebbero messo in atto una specie di porta a porta per contribuire all’ascesa del suo sconosciuto gruppetto di rock blues.
La notte del 14 luglio io e il mio amico Mauro (un imbattibile incrocio tra Riccardo Cocciante e Leo Sayer) eravamo di nuovo a Victoria Station, ubriachi di musica e di tutte le possibilità che vi girano intorno. Meno timorosi rispetto all’arrivo, anzi travolti dall’eccitazione di vedere l’uomo di “Mr.Tambourine Man” dal vivo, a pochi metri, salimmo sulla carrozza più vuota, per recuperare qualche ora di sonno in vista di un Festival che non sarebbe stato proprio una passeggiata.
Stringevamo in mano due bei biglietti gialli, conquistati giorni prima al prezzo di sei sterline e una interminabile fila a Shaftesbury Avenue, proprio quel viale di
cui i Dire Straits cantano in “Wild West End”.
Eravamo ingenuamente convinti di dovercela vedere con l’affluenza di un’arena, visto che l’evento – poi diventato uno dei raduni più celebrati della storia del rock’n’roll – veniva presentato dai manifesti appesi ai muri della città come un “picnic nel parco”. Ci attendeva un aeroporto, proprio un aeroporto, e una mare di gente.


Scesi nella cittadina di Camberley in un orario improponibile, io e il mio amico decidemmo che l’unica cosa da fare era incamminarci verso il venue, come lo chiamano lì, l’area del concerto insomma. “E’ l’alba, al massimo ci buttiamo su un prato e aspettiamo il pomeriggio”. Ci avevano già pensato in alcune centinaia di migliaia a buttarsi sul prato prima di noi. In nostro favore giocò il fatto che eravamo naturalmente sprovvisti di stupefacenti, quindi lucidi abbastanza per scavalcare corpi, tende canadesi e sacchi a pelo.
Prime file conquistate mentre tutti ancora dormivano. Culo e furbizia, ed anche quella fame di grandi eventi che ti porti dentro se arrivi da un posto che non è proprio l’Impero del Rock.
Quando tutti furono svegli e pronti - ready to go - noi eravamo lì a pochi metri dal palco, con gli speakers che suonavano i Dire Straits e “Sultans Of Swing”. Avrei finalmente potuto fotografare Dylan anche io, con la mia macchinetta fotografica inguardabile, una Ferrania Veramatic colore lilla e giallo, con mini flash incorporato, roba che chissà se mia madre regalandomela aveva immaginato che l’avrei usata per immortalare Mark Knopfler, Bob Dylan e Eric Clapton.


Concerto strepitoso, di quelli da tornare a casa e dire a tutti “guardate che Bob Dylan è vivo e vegeto, se l’è cavata bene dopo il salto dalla moto e il suo nuovo disco non è male, anche se quel sassofonetto in “Changing Of The Guards” scimmiotta un po’ la E Street Band”. Non sarebbe servito, l’appello, perché quella era roba da prime pagine, altro che scoperta dell’America.
34 canzoni solo il set di Bob Dylan. Un 15 luglio da non dimenticare mai più, con Bob e Clapton insieme sul palco a chiudere la serata di uno dei giorni più faticosi della mia giovane vita da aspirante rock’n’roller, tra nuvole di hascish (buone per stendere una squadra di calcio ben allenata) e ragazze in topless che da noi manco al cinema.
Dopo certe maratone si cammina a un metro da terra, travolti – mica è un’esagerazione – dalla sensazione di aver infilato nello zaino qualcosa da custodire gelosamente e da raccontare trent’anni dopo. Ai propri figli, a chi capita, a chi può capire.
Oggi sono qui, proprio a trent’anni e due giorni di distanza da allora a rigirarmi tra le mani la copia ingiallita di un Melody Maker acquistato ore dopo l’evento. Beh, se c'è chi può vantarsi di avere avuto la sua foto sulla copertina di Time e Newsweek nella stessa settimana, e Madonna è finita negli anni sulla copertina di oltre mille riviste, io – nient’altro che il ragazzino che prese il treno giusto, anzi due – ho legato due sogni tra loro: vedere Bob Dylan e finire, in un modo o nell’altro (se dopo tanto sbattersi non diventi un rock’n’roller con la chitarra elettrica, almeno la celebrazione come “pubblico”, che diamine!) sulle pagine del Melody Maker, Bibbia rock che oggi non c’è più, come tante altre cose.
Scorro quelle pagine ingiallite che un giorno provocarono in me un sussulto di quelli da lasciarci le coronarie e mi rivedo quasi bambino, con il naso all’insù, proteso forse verso quel mondo che allora già sognavo e che ho finito con l’attraversare in mille modi, su mille barche e barchette diverse.
Sono lì, proprio sotto la foto di Dylan che duella con Clapton a colpi di Fender Stratocaster, accomodato tra il pubblico delle prime file, parte integrante di una folla oceanica che quella notte, dopo “The Times They Are A-Changin’”, lasciò fuochi e cartacce, birre e coperte sudice in una tale quantità da rendere necessaria una settimana di lavoro per riportare tutto allo stato originale.


Mostrerò un giorno la foto, ancora ben conservata, alle mie figlie, raccontando loro che alle prime grandi passioni ed emozioni della vita, comunque e dovunque tu le provi, devi concederti con generosità e abbandono, e osservarle, proteggerle a ogni costo. Se andrà bene ti porteranno lontano, illuminandoti la strada, altrimenti ti seguiranno comunque, e rimarranno tra le cose più belle da custodire.


Nella mia vita privata e professionale ho messo insieme una bella striscia di ricordi, un bel po’ dei quali legati a Bob Dylan, che dopo quel 15 luglio 1978 avrò visto esibirsi almeno una ventina di volte. Tra i più cari c’è la memoria di quando a Roma, nel 1998, scortai una Fernanda Pivano già ottantunenne fino al camerino dell’imperturbabile Bob, scendendo con lei i gradoni del Palazzo della Civiltà e del Lavoro tanto lentamente da temere che lui si sarebbe stancato di aspettarci, anche se i due non si incontravano da trent’anni. O quando assistetti dal palco a un concerto di Van Morrison, che stava aprendo per Dylan in un acquitrino sotto agli alberi bolognesi. Accanto a me c’era uno strano tipo: stivali Frey, un dondolio del capo quasi inquietante, vocabolario tutto suo mentre parlava da solo sotto al cappuccio della sua felpa grigia. Mi girai verso quella figura misteriosa per scorgerne il viso: era Bob Dylan che a modo suo cercava di stare dietro al repertorio di Van The Man. E poi, ancora, il momento che sogni per una vita sentendoti un po’ fesso perché ti pare che va a capitare proprio a te, che eri al Blackbush e hai pure avuto la foto sul giornale; allora, sei nell’ascensore con Bob Dylan, poi imbocchi un corridoio, sei in una salottino con lui e dieci giornalisti perché ti occupi dei suoi rapporti con la stampa. Poi lui vuole fare un break di dieci minuti prima di ricominciare a parlare del suo disco “Love And Theft”, quindi sei nel 2001, in quel futuro che sembrava così lontano mentre guardavi a naso all’insù il cielo plumbeo del Surrey. A un certo punto Bob Dylan ti conduce nella sua stanza da letto per due minuti che sembrano interminabili, centoventi secondo soltanto, in cui tu vorresti chiedergli mille cose e invece è lui a chiederti “come diavolo funziona ‘sto videoregistratore?”.
Niente sogni, tutta vita vera, che mescola passione e professione: è quello il vero sogno. Vita tribolata, non sempre facile - mica è tutto oro quello che luccica - ma sempre sorprendente perché se resisti e non scendi mai dal treno potrai attenderti qualsiasi cosa alla prossima fermata.
Ma nessuna delle circostanze più recenti può battere il ricordo che è fermo a pagina 31 di un foglio da 15 pence e su quel prato dove ho lasciato molti semi sperando che diventassero fiori.