giovedì 13 agosto 2009
ERIC CLAPTON E STEVE WINWOOD: "Live from Madison Square Garden", il disco dell'anno?
I grandi dischi del rock’n’roll – “Pet Sounds” dei Beach Boys, “Revolver” dei Beatles, l’unico dei Blind Faith, “Transformer” di Lou Reed, “Born To Run” di Springsteen, “London Calling” dei Clash, “The Joshua Tree” degli U2, “Murmur” e "Automatic For The People" dei Rem e molti altri – sono un’anfetamina per chi ascolta certa musica da sempre. Ti tengono sveglio e vivo, nella speranza che miracoli del genere possano accadere di nuovo. Quanto ciò sia difficile è purtroppo sotto gli occhi e negli I-Pod di tutti. Stracolmi, questi ultimi (almeno quelli di chi appartiene alla mia generazione), di brani pescati da compilation, ristampe e dal meglio che il classic rock ha offerto e continua a offrire. Discorso di parte – si dirà – ed è vero, ma in questi mesi in cui l’appartenenza a qualcosa è identità urlata – si appartiene alla schiera di lettori di “quel” giornale, si cerca conforto in “quel” Tg, ci si guarda cercando di cogliere “quel” dettaglio che confermi la sensazione di assomigliarsi in qualcosa – la musica non può sfuggire alla regola: è una certezza, un marker che segnala i codici della nostra identità, o di quel che resta in questo diluvio di incertezza.
Un amico mi ha “prestato” il live di Eric Clapton e Steve Winwood perché non ce l’ho fatta ad aprire i pacchetti arrivati da Amazon: sono in vacanza! Attraverso un rapido passaggio dal cd al pc portatile, queste canzoni sono finite con mia grande sorpresa nel mio nuovo cellulare. La sorpresa ha a che vedere con il fatto che pur se gestisco con sufficente disinvoltura questo blog dovunque io mi trovi, resto pur sempre uno che guarda con sospetto agli articoli sulle nuove tecnologie, uno che piuttosto che leggere il libretto di istruzioni del nuovo hard disk recorder pagherebbe la stessa cifra investita per la prodigiosa macchina. Uno, insomma, che fa un sorriso di approvazione ogni volta che legge il titolo del blog “Torno ai vinili” del dirimpettaio, di rete e di musica, Maurizio Pratelli e che da anni respinge ostinatamente le richieste di acquisto della propria collezione di bootleg a 33 giri di Bruce Springsteen sebbene prenda polvere a tre metri dal pavimento. Avrete capito il soggetto, ma se siete arrivati fin qui, anche perché attratti dalla locandina in stile “anni Sessanta psichedelici”, siete abbastanza strutturati per leggere di due sessantenni inglesi che hanno attraversato la storia del rock riportando il blues in America.
“Live From Madison Square Garden”, approdo newyorchese di un progetto con tutte le caratteristiche del “cash-in” (“facciamo cassa”: è andata così ai tanti Who-reunion tour, è pane quotidiano – e che pane! - quando vanno in giro gli Stones, dicono che Springsteen stia prendendo quella deriva ogni volta che agita le ali della E Street Band), è un disco di spaventosa coesione, talmente bello nel suo sprizzare classic rock da far impallidire ogni jam band che calchi oggi i palchi e ogni formazione che provi a raggiungere quell’equilibrio tra espressività rock-blues e forza del repertorio che solo gli Allman Brothers possono ancora permettersi. Con simile perizia ci si può anche arrivare a suonare anche se non ci si chiama Clapton e Winwood (ma provateci voi, poi ne riparliamo, pur contando che si tratta di slowhands, tanto sulla chitarra Stratocaster quanto sull’organo Hammond B3), ma sembra davvero impossibile, al giorno d’oggi, mettere insieme tante buone canzoni per fare un concerto di pezzi originali. Eh già, perché a parte il largo omaggio a Jimi Hendrix (3 i pezzi, e come non ricordare che anche nella “Voodoo Chile” originale c’era Winwood all’organo) qui viene riscritta una storia quarantennale che è quasi tutta dei protagonisti di questo preziosissimo live. Una storia che dai Bluesbreakers di John Mayall e dallo Spencer Davis Group, passando poi per i Cream, i Blind Faith, Derek and the Dominos e i Traffic è marchiata Winwood o Clapton. Difficile trovare due musicisti che abbiano totalizzato insieme tante esperienze basilari nella storia del rock e che da solisti abbiano raggiunto gli stessi vertici di popolarità toccati da dischi come “Slowhand” (Clapton) e “Arc Of A Diver” (Winwood).
Il bello è che non è qui nemmeno il caso di storcere il naso come si fa di fronte a prodotti del genere, e a nulla serve osservare che negli anni Duemila Clapton non ha fatto altro che unire le forze sue con quelle degli altri (l’album con B.B.King, la fugace reunion dei Cream).
Queste canzoni, il loro amalgama, la piacevolezza con cui tutto ci arriva, quel senso di storia che ti prende alla gola e poi ti mette al tappeto, tutto rende cd e dvd di “Live from Madison Square Garden” una caldo rifugio di vintage rock dove tutto funziona a meraviglia (basti sentire come ci sta bene “Forever Man”, che pure arriva da un Clapton che ammorbidiva il blues nel pop). Tra gemme assolute come “Presence Of The Lord”, “Glad”, “Well Alright”, “After Midnight”, “Can’t Find My Way Home” e “Dear Mr. Fantasy”, ed altre eccellenti riproposizioni come “Cocaine” e “Georgia On My Mind” non avrebbero sfigurato un paio di pezzi del Winwood solista d’alta classifica (“While You See A Chance”?), ma solleveremmo inutilmente la questione del pelo e dell’uovo.
Disco dell’anno, va scritto osando un po’, senza remore né vergogna, anche se mette tristezza sentenziarlo nel giorno in cui muore Les Paul, l’uomo che ha scritto la storia della chitarra elettrica, quindi anche di Clapton.
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9 commenti:
come c'era scritto sui muri di una Londra di qualche anno fa "Clapton is God"
La ringrazio per Blog intiresny
La ringrazio per Blog intiresny
necessita di verificare:)
La ringrazio per Blog intiresny
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Your answer is matchless... :)
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