lunedì 11 maggio 2009

JACKSON BROWNE: Un tempo sognato che bisognava sognare.


Impresso su una sacca in tela (“Saturate Before Using”, 1972, l'esordio), di profilo in versione ancora giovanile (“Hold Out”, 1980), pronto a spuntare dalle acque torbide di una relazione sentimentale difficile (“I’m Alive”, 1993, con ritratto d’autore di Bruce Weber), in controluce a guardare con preoccupazione verso est (“Looking East”, 1996), o - ultimamente - con barba cresciuta e occhiali da sole a proteggersi dai segni del tempo che conquista tutto (“Time The Conqueror”, l’ultimo di una lunga serie di album dalla poetica sempre elevatissima): il volto di Jackson Browne ha sempre rivelato senza mezzi termini, dalle copertine, dove si trovasse l’uomo, con i suoi sentimenti, prima ancora del fine songwriter.


Questa capacità di smascherarsi prima di iniziare a cantare è sempre stata la prerogativa di questo autore californiano (classe 1948) a cui il tempo sembra risparmiare quei colpi che stanno progressivamente allontanando alcuni suoi coetanei dalle scene. Perché è sempre lì, pure se aggredito da qualche capello bianco, quel classico caschetto da surfer che fa pensare alle onde e alle palme, ai Beach Boys e a “Fragole e Sangue”, alla Woodstock generation e a quando anche i Byrds cedettero alle frangette “alla Beatles”, ed è sempre più bello il canzoniere che Browne porta in giro dal vivo, mescolando ad arte le stagioni della sua creatività, tra amore e politica, chitarra e pianoforte, zone d’ombra e colpi da classifica. Sono briciole di un’iconografia andata, che per qualcuno è polverosa, ma per altri decisiva. Ieri sera uno degli auditorium progettati da Renzo Piano per la “Città della Musica” era gremito di quarantenni (questa la media, a voler stare stretti con la calcolatrice) che l’anagrafe segnala come romani con il cuore tra Los Angeles e il Big Sur. Tutti a sentire questo eterno ragazzo che gira in auto per Santa Monica ascoltando la musica di Ben Harper, che porta i suoi musicisti a Cuba con un visto religioso, che ancora si indigna per le cose che nel mondo non funzionano e che dal suo sito non vende t-shirts ma consiglia la lettura di libri come “The Reclutant Fondamentalist” di Mohsin Hamid, ovvero l’America vista dagli occhi di un giovane pakistano. In platea, c’erano quelli che presero il caldo a Castel Sant’Angelo nel 1982, quando Browne portò per la prima volta canzoni e band nel nostro paese, e quelli che senza essere presenze fisse quando Brother Jackson scende da noi lo seguono con affetto quando possono, cercando di comprendere le nuove canzoni che pubblica con la stessa attenzione riservata a “Before The Deluge” e “For Everyman”.


E c’erano anche – ad abbeverarsi a quella fonte west coast che oggi, con tre neri nella band su sette (ottimo davvero l’innesto delle coriste Chavonne Morris e Alethea Mills), offre anche magnifiche tracce di gospel e soul - quelli che lo avevano idealizzato per una vita senza mai incontrarlo. Tutti raccolti a seguire il filo della memoria e a passeggiare tra canzoni che al “tempo”, quello scandito dalle lancette di un orologio, hanno sempre guardato con occhio attento. Da “These Days” a “Late For The Sky”, da “The Times You’ve Come” a “Baby How Long”, c’è sempre in quello che scrive Browne un tempo da aspettare, da rincorrere e da temere perché vuol dire che la vita si sta consumando non senza un filo della speranza che ci lasci intravvedere un futuro migliore. Ma c'è, più di ogni altra cosa, quel tempo bello che nessuno potrà portarsi via. E chi ha sognato, o viaggiato, almeno una volta con le canzoni di Jackson Browne, quel tempo prima o poi, sia pure per la durata di una sola sera, torna a riprenderselo, come accaduto ieri. Per rubare le parole a Fossati, potremmo dire che si tratta di quel “tempo sognato che bisognava sognare”, un tempo “che sfugge” ma “niente paura che prima o poi ci riprende”.
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La scaletta della serata (Roma, 10 maggio 2009)
Primo set: Boulevard/The Barricades of Heaven//Fountain of Sorrow/These Days/Time the Conqueror/Off of Wonderland/Live Nude Cabaret/Giving that Heaven away/Doctor my Eyes/About my Imagination
Secondo set: Something fine/For a dancer/Before the Deluge/Late for the Sky//Lives in the Balance/Going down to Cuba/Just say yeah/Late for the Sky/The Pretender/Running on Empty
Bis: I am a Patriot (Little Steven)-It's Your Thing (Isley Brothers)/The Load Out-Stay (Maurice Williams & the Zodiacs)

Questa sera, 11 maggio, Jackson Browne e la sua band - Mark Goldenberg, Mauricio Levak, Kevin McCormick, Jeff Young, Chavonne Morris (foto) e Alethea Mills - concederà all’Auditorium Manzoni di Bologna l’ultima sua replica italiana (dopo Milano, Padova e Roma) prima di andare a chiudere il “Time the Conqueror – European Tour 2009” alla Royal Albert Hall di Londra.

10 commenti:

filippo ha detto...

è sempre un piacere leggerti per la tua scrittura fluida ed affascinante nel presentare l'artista da angolature mai scontate. Go Emanno go!!!

KilgoreTrout ha detto...

Ottimo commento. La setlist però è imprecisa.

Anonimo ha detto...

Bologna in California

Non conoscevo Jackson Browne quando avevo l’età di mio figlio o almeno conoscevo soltanto “Stay”, la sua canzone di maggior successo popolare negli anni della mia adolescenza.
La “sorpresa” delle melodie dell’autore californiano mi è arrivata solo da pochi anni e precisamente in una sera di Novembre del 2001 mentre stavo guidando di ritorno da Bologna dove ero stato per curare un grave malanno. Quella sera per radio passavano “Late for the Sky” e la sera dopo, dato che in quel periodo avevo molto tempo libero, avevo già ascoltato quasi tutta la discografia di Jackson.
La cosa straordinaria è stato l’impatto immediato che questa musica ha avuto su mio figlio Alessandro. Quando io ero adolescente e mio padre ascoltava Charles Aznavour, io mi rifugiavo nei Pink Floyd. Adesso mio figlio si rifiuta giustamente di ascoltare i Tokio Hotel e si rifugia nella musica della West Coast degli anni '70.
Non esiste altra dimensione negli ultimi trent’anni che abbia subito un arresto temporale ed emozionale simile a quello del periodo d’oro della musica pop. Quella musica è stata un incanto, e come in ogni incantesimo che si rispetti il tempo si è fermato lì, in attesa di qualcosa di migliore che forse non arriverà mai.
In effetti le canzoni di Jackson sono incantesimi nel vero senso del termine: “In-Cànere” è il termine latino che significa “in-cantare”(cantare “dentro”, cantare all’anima) e allo stesso tempo “fare magie” (gli indovini e i fattucchieri si servivano del canto per guadagnarsi l’anima di qualcuno).
Al teatro Manzoni di Bologna Browne ed i suoi straordinari musicisti hanno davvero cantato alla nostra anima e noi, sospesi in una dimensione dove il tempo sembrava non seguire più le leggi della natura, abbiamo assistito a numerose magie.
La prima ha colpito il cantautore sessantenne e l’ha trasformato in un giovane “Trovatore”. Sicuramente non mi aspettavo che quella voce incisa nei miei amati dischi di vinile potesse ancora prendere la medesima forma e trasformare i ricordi emotivi in meravigliose esperienze acustiche attuali.
La seconda magia ha colpito Bologna ed il suo teatro e li ha trasportati entrambi in California. I portici non sono certo quelli dello stile missionario-californiano di Lausen, ma la musica è un linguaggio misterioso, forse l’unico linguaggio universale. Se tutti gli abitanti parlano la medesima lingua è anche molto probabile che si trovino nel medesimo paese e dato che lunedì sera la comprensione del linguaggio emozionale era assoluta, non potevamo che essere al Teatro Greco di Los Angeles.
La terza ha colpito il pubblico presente, che si è smaterializzato e diventato esso stesso musica. Quando Jackson ha intonato the Load Out ( http://www.youtube.com/watch?v=7f8Qi20fid0 ) il pubblico ha accompagnato le straordinarie note della canzone in assoluto silenzio e lo ha infranto con un solo fischio che si integrava perfettamente con le note e nel giusto momento temporale dello storico fischio inciso nella canzone originale degli anni settanta.
I quarto miracolo si è materializzato quando il mio amico fraterno sulle note di “Fountain of sorrow”” ha allungato la mano per cercare quella di sua moglie. E questo è davvero inspiegabile anche per uno psichiatra.
In sintesi, vedere settantenni e quindicenni che ballavano e cantavano all’unisono sulle note di “take it easy” mi è sembrato davvero un incantesimo straordinario. E’ come se negli anni settanta Io, Luca e la Lisa avessimo assistito alla medesima scena sulle note di “Com’è triste Venezia”.
Non abbiamo assistito a niente del genere noi quindicenni del ’79.Tu Alessandro quindicenne del 2009 sì.
God Bless You Mr. Browne…..two times!

Anonimo ha detto...

Bologna in California (di Raffaello Spiti)

Non conoscevo Jackson Browne quando avevo l’età di mio figlio o almeno conoscevo soltanto “Stay”, la sua canzone di maggior successo popolare negli anni della mia adolescenza.
La “sorpresa” delle melodie dell’autore californiano mi è arrivata solo da pochi anni e precisamente in una sera di Novembre del 2001 mentre stavo guidando di ritorno da Bologna dove ero stato per curare un grave malanno. Quella sera per radio passavano “Late for the Sky” e la sera dopo, dato che in quel periodo avevo molto tempo libero, avevo già ascoltato quasi tutta la discografia di Jackson.
La cosa straordinaria è stato l’impatto immediato che questa musica ha avuto su mio figlio Alessandro. Quando io ero adolescente e mio padre ascoltava Charles Aznavour, io mi rifugiavo nei Pink Floyd. Adesso mio figlio si rifiuta giustamente di ascoltare i Tokio Hotel e si rifugia nella musica della West Coast degli anni '70.
Non esiste altra dimensione negli ultimi trent’anni che abbia subito un arresto temporale ed emozionale simile a quello del periodo d’oro della musica pop. Quella musica è stata un incanto, e come in ogni incantesimo che si rispetti il tempo si è fermato lì, in attesa di qualcosa di migliore che forse non arriverà mai.
In effetti le canzoni di Jackson sono incantesimi nel vero senso del termine: “In-Cànere” è il termine latino che significa “in-cantare”(cantare “dentro”, cantare all’anima) e allo stesso tempo “fare magie” (gli indovini e i fattucchieri si servivano del canto per guadagnarsi l’anima di qualcuno).
Al teatro Manzoni di Bologna Browne ed i suoi straordinari musicisti hanno davvero cantato alla nostra anima e noi, sospesi in una dimensione dove il tempo sembrava non seguire più le leggi della natura, abbiamo assistito a numerose magie.
La prima ha colpito il cantautore sessantenne e l’ha trasformato in un giovane “Trovatore”. Sicuramente non mi aspettavo che quella voce incisa nei miei amati dischi di vinile potesse ancora prendere la medesima forma e trasformare i ricordi emotivi in meravigliose esperienze acustiche attuali.
La seconda magia ha colpito Bologna ed il suo teatro e li ha trasportati entrambi in California. I portici non sono certo quelli dello stile missionario-californiano di Lausen, ma la musica è un linguaggio misterioso, forse l’unico linguaggio universale. Se tutti gli abitanti parlano la medesima lingua è anche molto probabile che si trovino nel medesimo paese e dato che lunedì sera la comprensione del linguaggio emozionale era assoluta, non potevamo che essere al Teatro Greco di Los Angeles.
La terza ha colpito il pubblico presente, che si è smaterializzato e diventato esso stesso musica. Quando Jackson ha intonato the Load Out ( http://www.youtube.com/watch?v=7f8Qi20fid0 ) il pubblico ha accompagnato le straordinarie note della canzone in assoluto silenzio e lo ha infranto con un solo fischio che si integrava perfettamente con le note e nel giusto momento temporale dello storico fischio inciso nella canzone originale degli anni settanta.
I quarto miracolo si è materializzato quando il mio amico fraterno sulle note di “Fountain of sorrow”” ha allungato la mano per cercare quella di sua moglie. E questo è davvero inspiegabile anche per uno psichiatra.
In sintesi, vedere settantenni e quindicenni che ballavano e cantavano all’unisono sulle note di “take it easy” mi è sembrato davvero un incantesimo straordinario. E’ come se negli anni settanta Io, Luca e la Lisa avessimo assistito alla medesima scena sulle note di “Com’è triste Venezia”.
Non abbiamo assistito a niente del genere noi quindicenni del ’79.Tu Alessandro quindicenne del 2009 sì.
God Bless You Mr. Browne…..two times!

Anonimo ha detto...

leggere l'intero blog, pretty good

Anonimo ha detto...

quello che stavo cercando, grazie

Anonimo ha detto...

Perche non:)

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La ringrazio per intiresnuyu iformatsiyu

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