martedì 14 aprile 2009

LOWLANDS - Chitarre, Bonarda e bourbon. Quando il buon rock americano e la musica d'autore dei "grandi spazi" arrivano da Pavia.


In between, ovvero in mezzo, ci stiamo un po’ tutti. Ci stiamo noi che ascoltiamo la musica americana, facendoci trasportare in Texas o in California ogni volta che ci arriva uno di quei dischi che hanno il potere di farci saltare l’Oceano; e ci stanno i musicisti, quelli che con piedi e chitarre sono ben saldi in Italia ma suonano, sognano, scrivono come se quel mondo tanto mitizzato fosse dietro l’angolo e non al di là del mare. Per la somma di questi motivi, in between ci stanno anche i Lowlands, attualmente la migliore banda italiana di american rock’n’roll. Ci stanno più di altri perché da Pavia guardano a ovest con la passione dei fan della musica (quelli, appunto, per cui un nuovo disco di Steve Wynn è sempre un evento) e con la comunicativa di chi la musica la fa con la speranza di portarla lontano. Mesi fa, i Lowlands mi fecero avere un loro demo, e poi un altro, e poi il loro prezioso esordio, Last Call (registrato – bene -tra Italia, America, Inghilterra e Australia), dove alla posizione 5 c’è “In Between”, in cui Edward Abbiati scrive e canta “you travel a million miles but never move on”. E’ una canzone di speranza e rammarico, di quelle dove il protagonista sembra immobile, stretto tra la voglia di andare e quella mano misteriosa che lo trattiene. Cinque minuti dolenti, alla Ghost of Tom Joad, incastrati con il loro violino e un accompagnamento essenziale di chitarre acustiche e pedal steel, in un disco bellissimo che altrove sprizza Americana, quella buona, celebrando – con personalità e originalità - le molte facce della canzone d’autore made in USA e il suono di tante band di cui questi ragazzi vedono la scia. Sul finire di “In Between” c’è una frase - “every now and then something happens” – che da sola sembra raccogliere ogni segreta ambizione di casa Lowlands. Se è vero che ogni tanto qualcosa succede, qui di cose ne succedono e ne succederanno parecchie, e il merito è di una scrittura davvero brillante, che Abbiati, un pavese bilingue che ha sangue australiano nelle vene, supporta con un’interpretazione che dalle nostre parti – dove a cantare certe cose in modo così credibile sono in tre o quattro – è quasi impossibile battere.

Così capita di innamorarsi di “Leaving NYC”, canzone di viaggi e promesse, tra i momenti più toccanti del disco, dove il protagonista attraversa in Greyhound l’America delle mille facce (“intrappolate tra il sogno e la realtà, come me”, canta Abbiati), delle mille possibilità e dei mille tradimenti. Dove si scappa come ladri da New York, dove si plaude a quelli che ce l’hanno fatta e si piange chi è andato via per sempre, dove puoi “sballare” a Toronto e venire beccato a Buffalo, quell’America che quando serve manda giù una pioggia benefica a lenire il dolore. E’ l’America che abbiamo sentito cantare tanto a lungo da averne quasi noia, senza mai sapere per certo se arriverà un’altra canzone a farcela amare di nuovo. “Leaving NYC” è una di quelle, perché avrebbero potuto scriverla Willie Nile, Steve Forbert o Michael McDermott, e perché quella strofa in cui si esce dal Lincoln Tunnel per incontrare il New Jersey delle Turnpike, del fantasma di Sandy e delle thunder road non è solo un omaggio alla musica di Springsteen ma un crocevia di emozioni uniche che portano anche altrove. La completezza di questo disco e l’armonia delle sue intenzioni sono testimoniate infatti anche da quegli episodi di bellezza mista, come “Ghost of This Town”, poesia ibrida che sembra nascere nel garage dei Green On Red per approdare, giusto il tempo di finire il primo verso, dalle parti degli Hothouse Flowers, in quella terra d’Irlanda che dalle nostre parti è il primo oblò attraverso cui si vede davvero l’America. Tra notti scure, cieli color arancio, angoli di strada, la luce pallida di una luna piena, venerdi in cui fare festa (due canzoni si abbracciano grazie a questo tema, “Friday Night” e “That’s Me On The Page”) e spiagge davanti al Pacifico si consuma il più bel disco di american rock prodotto dalle nostre parti dopo la favola troppo breve e ormai lontana degli emiliani Rocking Chairs.


Prendete ognuno di questi brani e fatelo vostro senza indugio, per ritrovarci i Dream Syndicate che non ci sono più (“What Can I Do”) o per godere di qualcosa che non assomiglia a nulla se non ai Lowlands (“38th & Lawton”), perché la bravura di Abbiati (voce, chitarre e ottima produzione artistica) e di chi viaggia con lui (il bassista Simone Fratti, il batterista Paolo Maggi, la violinista Chiara Giacobbe e i chitarristi Simone "John" Prunetti, Stefano Speroni e Francesco "Lebowski" Verrastro, più ospiti vari e nobili, tra cui Chris Cacavas e Nick Barker) è proprio nel rasentare i muri maestri della musica americana o percorrere le strade di retrovia aggiungendo i propri colori, cosa non sempre facile come appare qui. Già segnalati, con merito, da magazine e siti americani, i Lowlands sono una bella scommessa che parte dalle nostre campagne dove si beve la Bonarda per arrivare a stordirsi nella terra dove whisky, bourbon e birra scorrono a fiumi.

_________________________________________________________
Sapere i Lowlands impegnati tra breve (il 17 aprile) a Spaziomusica di Pavia, la loro Asbury Park, mi fa venire voglia di rubargli di nuovo le parole e fargli una pinta di auguri, certo però che questi rocker di pianura, raccolta l’ultima chiamata, siano già partiti.
Every now and then something happens…

www.lowlandsband.com

8 commenti:

Nicola Pagano ha detto...

Da ascoltare. Spero di farlo presto

hazel ha detto...

Non sembrano neanche itaiani da quanto suona bene il cd!

Anonimo ha detto...

Si, probabilmente lo e

Anonimo ha detto...

necessita di verificare:)

Anonimo ha detto...

imparato molto

Anonimo ha detto...

La ringrazio per Blog intiresny

Anonimo ha detto...

I gotta check this Lowlands out bro!!

PS...love your playlist!

Saby

strumenti musicali ha detto...

ottimo disco