rappresentato NEBRASKA per il mondo della musica d’autore, diventa essenziale la
lettura di “Deliver Me From Nowhere”, tanto nella sua versione originale (Crown, 2023)
quanto in quella italiana (Jimenez, 2024). Ne abbiamo parlato con l’autore,
disponibilissimo ad aprire una finestra anche sulla sua vita personale e sui motivi che lo
hanno spinto, da chitarrista e storico della musica, ad interessarsi così profondamente a
quelle registrazioni. Il suo amore per la musica di Springsteen ha radici lontane.
di ERMANNO LABIANCA
foto di CHRIS HARTFORD
Da rock’n’roller a biografo dei propri idoli è un lungo viaggio. Non accade a tutti i
ragazzi con una Fender al collo…
Prima di formare con mio fratello i Del Fuegos sognavo di fare il ciclista, sapevo tutto della
Vuelta e del Giro d’Italia. Poi mi ha chiamato il rock’n’roll, quindi sciolta la band mi sono
trasferito a New Orleans e ho fatto il riparatore di biciclette nel Quartiere Francese. Ero
pronto, sapevo cosa fare, anche se un anno prima con i ragazzi aprivamo per Tom Petty al
Madison Square Garden. Nel retrobottega con le mani unte di grasso non fu facile, poi
ascoltai I Won’t Back Down di Tom Petty alla radio e quella canzone mi spinse verso una
reinvenzione di me stesso. “Non mollare”, mi ripetevo in continuazione.
Lei entrò a far parte del direttivo del Rock’n’Roll Forever Museum, supervisionando
i programmi di quella casa del Rock’n’Roll che si trova a Cleveland. Deve essere
stato stimolante a un certo punto osservare tutto con altri occhi.
All’inizio la cosa mi spaventava. Ero a un crocevia. Volevo fare musica, insegnare,
scrivere. Un ruolo nella Rock’n’Roll Hall of Fame poteva scalfire la mia credibilità un po’
punk da chitarrista in una band? Mi stavo vendendo? Mi sbagliavo, non avevo motivo di
preoccuparmi. Ho imparato molto lavorando con Elvis Costello, Dr.John, Robbie
Robertson. All’improvviso insegnavo nelle università, e incidevo dischi per conto mio. Il
tutto riuscendo anche a prendermi un dottorato in ricerca. Ero in una posizione
formidabile.
Nel libro su Tom Petty lei raccolse da lui una bella confidenza: “vidi Springsteen al
Roxy di Los Angeles nel 1975, quella fu la miccia, misi ancora più energia in quel
che stavo facendo come musicista”. Qual è stata invece per lei la miccia?
La collezione di dischi di mia madre. Il suo giradischi messo accanto al tavolo dove si
mangiava tre volte al giorno ascoltando Van Morrison, Leadbelly, Aretha Franklin, gli
Stones. Anche il tipo del piano di sopra che suonava in continuazione gli oldies, da Buddy
Holly alle Shangri-Las. Tutto ciò ha portato me e mio fratello Dan a cercare i “nostri” artisti:
Petty, Bruce, Marley, Costello, i Clash, gente che si portava sulle spalle il peso del passato
e ci indicava la strada. Poi un nostro cugino, Trigger Cook, mise insieme una band e noi
capimmo cosa avremmo dovuto fare delle nostre vite.
Come arrivaste a Springsteen?
In casa ero il piccolo di tre fratelli. Un buon punto di osservazione, il mio. Fu Dan a
scoprire Bruce con THE WILD, THE INNOCENT & THE E STREET SHUFFLE. Ci
connettemmo immediatamente. Capimmo che lui era arrivato per presentarci a noi stessi.
Quando uscì BORN TO RUN, Dan rivesti il suo diario scolastico con le copertine di Time e
Newsweek dedicate a Bruce, così finimmo noi incartati nel rock’n’roll. Meglio di Dylan, la
cui narrazione richiedeva una concentrazione maggiore. Non ne uscimmo più. Sono
trappole che durano una vita.
Avendolo conosciuto e frequentato per il libro, quali qualità evidenzia in
Springsteen come uomo e artista?
Il modo di comporre, di raccontare. Lo stile. Lo aveva come performer e non solo. Con lui il
rock’n’roll non era soltanto fico, era profondo. Poi il suo romanticismo, che scoprii da
giovanissimo bevendolo in un solo sorso, perché conteneva amore, amicizia, sostanza,
sofferenza, gioia. Bruce ci spinse a partecipare alla vita con un giubbotto di pelle addosso.
Immaginava che “Deliver Me From Nowhere” sarebbe servito da spunto per un film
su Springsteen?
Se la tua testa pensa a Hollywood allora è bene non scrivere. Le cose devono venire da
sole. Cercavo una scrittura immediata, ho messo un grado di attenzione enorme nel
cercare quella caratteristica. Pensavo solo al mio racconto. Naturalmente sono felicissimo
che Scott Cooper sia arrivato nella mia vita facendo di quelle pagine un film. Non saprei da
dove iniziare per dirle quanto sono felice.
Come scelse gli artisti per “Nebraska Celebration”, lo speciale tv che lei ha
realizzato per il canale PBS?
Lucinda Williams, the Lumineers, Eric Church, Emmylou Harris, Lyle Lovett sono legati da
un elemento: la franchezza. Un album così diverso, così quieto e silenzioso, portato da
quella voce richiedeva una partecipazione sentita, vera. Per la sera più bella della mia
carriera avevo bisogno di gente che sottoscrivesse il mio sentimento verso NEBRASKA.
Necessario sottolineare il legame tra Springsteen e il mondo della country music.
Il country ha una certa importanza per Bruce Springsteen, così come lui da un certo punto
l’ha avuta per quel mondo lì. Abbiamo tutti qualcosa da imparare da George Jones, Patsy
Cline, Webb Pierce, Hank Williams e Merle Haggard. Bruce è uno straordinario insegnante
perché è stato un eccellente studente, uno di quelli che non saltano mai una lezione.
In un soundcheck del 1978 aveva suonato qualcosa di Hank Williams, poi THE
RIVER aveva iniziato a far trapelare certe sue conoscenze. Lì a mio parere nasceva
NEBRASKA, tra le pieghe di Wreck On The Highway e The Price You Pay..
Aggiunga Stolen Car. Springsteen è stato assiduo nella costruzione della sua arte. È
partito dalla storia della sua famiglia e da tutto ciò che per lui ha poi avuto un significato
nella vita adulta. Il disco del 1982 è stato a un certo punto il raccoglitore di tutto ciò. Lei
dice bene: quel che affiorava nel 1980 e nel tour del 1981 aveva un senso. Bruce non si
stanca mai di citare le sue fonti, è onesto. Ha aperto tante porte con NEBRASKA e la sua
vulnerabilità, e per questo va ringraziato. Lo ha fatto con misura e dolcezza ma anche con
i denti e con la rabbia.
Cito Springsteen, dal suo libro: “ci fu NEBRASKA, poi un crollo”. È stato difficile
portare l’artista ad aprirsi su quello che lui nel libro ha definito “il mio personale
inferno”?
Il mio libro sarebbe stato penalizzato se lui non si fosse aperto in tal modo. Doveva
portarmi nelle sue vene e lo ha fatto. Mi ha molto colpito e ne ho parlato con il mio analista
mentre scrivevo il libro. È stato un momento molto educativo per me. Ho compreso quanto
sia necessario rivelarsi dal profondo.
Leggendo quel che lei scrive, la sento molto vicino alle tematiche di Springsteen, a
quei personaggi così disperati di cui lui canta.
Ero un adolescente quando lui è entrato nella mia vita. Non mi sapevo esprimere granché
bene. Lui era soltanto la copertina di un disco nella mia stanza. Salto in avanti: lui che
viene a un concerto dei Del Fuegos in una sua serata libera. Una cosa gigantesca per noi.
Seguirono altri incontri, anche se non potevo certo dire di essere suo amico. Forse non mi
avrebbe nemmeno riconosciuto incontrandomi per strada. Considero NEBRASKA il vero
legame. Quel disco ci ha uniti. Poi ho perso mio padre, il mio matrimonio è finito, ho
attraversato un mare di guai. Prendevo appunti sulle canzoni e mi sono aggrappato a
quelle canzoni come molte altre volte in passato. Credi si tratti di un aspetto che tocca
molti, non solo me. Molta musica pop evita certe tematiche, gli autori tirano il freno quando
il terreno si fa difficile. NEBRASKA è un documento raro, nato nell’ombra. Aiuta a sentirsi
meno soli.
Ha avuto modo di ascoltare qualcosa della nuova pubblicazione del disco? Che
effetto le fa?
Le canzoni elettriche le considero un terzo disco. Formano un grande album, indipendente
direi. Non è NEBRASKA, e non è BORN IN THE U.S.A.
Ascoltare la versione primitiva di Born In The U.S.A., solo basso chitarra elettrica e
batteria, poi abortita, porta a chiederci cosa sarebbe stato l’album del 1984 senza
quel pezzo e se la carriera di Springsteen da lì in poi sarebbe stata differente.
Difficile dirlo. La canzone pubblicata ha avuto un grande impatto ed è noto come siano
andate le cose. Sappiamo solo che Bruce nel 1982 aveva voluto deviare verso
NEBRASKA, pretendendo che uscisse prima. Ha scelto la strada più impervia ed è stato
ripagato.