martedì 30 dicembre 2025

 



INTERVISTA A WARREN ZANES

dai Del Fuegos a Bruce Springsteen,
un percorso rock che ha attraversato la Rock'n'Roll Hall of Fame 

Con a disposizione strumenti di ogni tipo per comprendere come è nato e cosa ha

rappresentato NEBRASKA per il mondo della musica d’autore, diventa essenziale la

lettura di “Deliver Me From Nowhere”, tanto nella sua versione originale (Crown, 2023)

quanto in quella italiana (Jimenez, 2024). Ne abbiamo parlato con l’autore,

disponibilissimo ad aprire una finestra anche sulla sua vita personale e sui motivi che lo

hanno spinto, da chitarrista e storico della musica, ad interessarsi così profondamente a

quelle registrazioni. Il suo amore per la musica di Springsteen ha radici lontane.


di ERMANNO LABIANCA

foto di CHRIS HARTFORD


Da rock’n’roller a biografo dei propri idoli è un lungo viaggio. Non accade a tutti i

ragazzi con una Fender al collo…

Prima di formare con mio fratello i Del Fuegos sognavo di fare il ciclista, sapevo tutto della

Vuelta e del Giro d’Italia. Poi mi ha chiamato il rock’n’roll, quindi sciolta la band mi sono

trasferito a New Orleans e ho fatto il riparatore di biciclette nel Quartiere Francese. Ero

pronto, sapevo cosa fare, anche se un anno prima con i ragazzi aprivamo per Tom Petty al

Madison Square Garden. Nel retrobottega con le mani unte di grasso non fu facile, poi

ascoltai I Won’t Back Down di Tom Petty alla radio e quella canzone mi spinse verso una

reinvenzione di me stesso. “Non mollare”, mi ripetevo in continuazione.







Lei entrò a far parte del direttivo del Rock’n’Roll Forever Museum, supervisionando

i programmi di quella casa del Rock’n’Roll che si trova a Cleveland. Deve essere

stato stimolante a un certo punto osservare tutto con altri occhi.

All’inizio la cosa mi spaventava. Ero a un crocevia. Volevo fare musica, insegnare,

scrivere. Un ruolo nella Rock’n’Roll Hall of Fame poteva scalfire la mia credibilità un po’

punk da chitarrista in una band? Mi stavo vendendo? Mi sbagliavo, non avevo motivo di

preoccuparmi. Ho imparato molto lavorando con Elvis Costello, Dr.John, Robbie

Robertson. All’improvviso insegnavo nelle università, e incidevo dischi per conto mio. Il

tutto riuscendo anche a prendermi un dottorato in ricerca. Ero in una posizione

formidabile.


Nel libro su Tom Petty lei raccolse da lui una bella confidenza: “vidi Springsteen al

Roxy di Los Angeles nel 1975, quella fu la miccia, misi ancora più energia in quel

che stavo facendo come musicista”. Qual è stata invece per lei la miccia?

La collezione di dischi di mia madre. Il suo giradischi messo accanto al tavolo dove si

mangiava tre volte al giorno ascoltando Van Morrison, Leadbelly, Aretha Franklin, gli

Stones. Anche il tipo del piano di sopra che suonava in continuazione gli oldies, da Buddy

Holly alle Shangri-Las. Tutto ciò ha portato me e mio fratello Dan a cercare i “nostri” artisti:

Petty, Bruce, Marley, Costello, i Clash, gente che si portava sulle spalle il peso del passato

e ci indicava la strada. Poi un nostro cugino, Trigger Cook, mise insieme una band e noi

capimmo cosa avremmo dovuto fare delle nostre vite.


Come arrivaste a Springsteen?

In casa ero il piccolo di tre fratelli. Un buon punto di osservazione, il mio. Fu Dan a

scoprire Bruce con THE WILD, THE INNOCENT & THE E STREET SHUFFLE. Ci

connettemmo immediatamente. Capimmo che lui era arrivato per presentarci a noi stessi.

Quando uscì BORN TO RUN, Dan rivesti il suo diario scolastico con le copertine di Time e

Newsweek dedicate a Bruce, così finimmo noi incartati nel rock’n’roll. Meglio di Dylan, la

cui narrazione richiedeva una concentrazione maggiore. Non ne uscimmo più. Sono

trappole che durano una vita.




Avendolo conosciuto e frequentato per il libro, quali qualità evidenzia in

Springsteen come uomo e artista?

Il modo di comporre, di raccontare. Lo stile. Lo aveva come performer e non solo. Con lui il

rock’n’roll non era soltanto fico, era profondo. Poi il suo romanticismo, che scoprii da

giovanissimo bevendolo in un solo sorso, perché conteneva amore, amicizia, sostanza,

sofferenza, gioia. Bruce ci spinse a partecipare alla vita con un giubbotto di pelle addosso.


Immaginava che “Deliver Me From Nowhere” sarebbe servito da spunto per un film

su Springsteen?

Se la tua testa pensa a Hollywood allora è bene non scrivere. Le cose devono venire da

sole. Cercavo una scrittura immediata, ho messo un grado di attenzione enorme nel

cercare quella caratteristica. Pensavo solo al mio racconto. Naturalmente sono felicissimo

che Scott Cooper sia arrivato nella mia vita facendo di quelle pagine un film. Non saprei da

dove iniziare per dirle quanto sono felice.


Come scelse gli artisti per “Nebraska Celebration”, lo speciale tv che lei ha

realizzato per il canale PBS?

Lucinda Williams, the Lumineers, Eric Church, Emmylou Harris, Lyle Lovett sono legati da

un elemento: la franchezza. Un album così diverso, così quieto e silenzioso, portato da

quella voce richiedeva una partecipazione sentita, vera. Per la sera più bella della mia

carriera avevo bisogno di gente che sottoscrivesse il mio sentimento verso NEBRASKA.

Necessario sottolineare il legame tra Springsteen e il mondo della country music.

Il country ha una certa importanza per Bruce Springsteen, così come lui da un certo punto

l’ha avuta per quel mondo lì. Abbiamo tutti qualcosa da imparare da George Jones, Patsy

Cline, Webb Pierce, Hank Williams e Merle Haggard. Bruce è uno straordinario insegnante

perché è stato un eccellente studente, uno di quelli che non saltano mai una lezione.


In un soundcheck del 1978 aveva suonato qualcosa di Hank Williams, poi THE

RIVER aveva iniziato a far trapelare certe sue conoscenze. Lì a mio parere nasceva

NEBRASKA, tra le pieghe di Wreck On The Highway e The Price You Pay..

Aggiunga Stolen Car. Springsteen è stato assiduo nella costruzione della sua arte. È

partito dalla storia della sua famiglia e da tutto ciò che per lui ha poi avuto un significato

nella vita adulta. Il disco del 1982 è stato a un certo punto il raccoglitore di tutto ciò. Lei

dice bene: quel che affiorava nel 1980 e nel tour del 1981 aveva un senso. Bruce non si

stanca mai di citare le sue fonti, è onesto. Ha aperto tante porte con NEBRASKA e la sua

vulnerabilità, e per questo va ringraziato. Lo ha fatto con misura e dolcezza ma anche con

i denti e con la rabbia.


Cito Springsteen, dal suo libro: “ci fu NEBRASKA, poi un crollo”. È stato difficile

portare l’artista ad aprirsi su quello che lui nel libro ha definito “il mio personale

inferno”?

Il mio libro sarebbe stato penalizzato se lui non si fosse aperto in tal modo. Doveva

portarmi nelle sue vene e lo ha fatto. Mi ha molto colpito e ne ho parlato con il mio analista

mentre scrivevo il libro. È stato un momento molto educativo per me. Ho compreso quanto

sia necessario rivelarsi dal profondo.


Leggendo quel che lei scrive, la sento molto vicino alle tematiche di Springsteen, a

quei personaggi così disperati di cui lui canta.

Ero un adolescente quando lui è entrato nella mia vita. Non mi sapevo esprimere granché

bene. Lui era soltanto la copertina di un disco nella mia stanza. Salto in avanti: lui che

viene a un concerto dei Del Fuegos in una sua serata libera. Una cosa gigantesca per noi.

Seguirono altri incontri, anche se non potevo certo dire di essere suo amico. Forse non mi

avrebbe nemmeno riconosciuto incontrandomi per strada. Considero NEBRASKA il vero

legame. Quel disco ci ha uniti. Poi ho perso mio padre, il mio matrimonio è finito, ho

attraversato un mare di guai. Prendevo appunti sulle canzoni e mi sono aggrappato a

quelle canzoni come molte altre volte in passato. Credi si tratti di un aspetto che tocca

molti, non solo me. Molta musica pop evita certe tematiche, gli autori tirano il freno quando

il terreno si fa difficile. NEBRASKA è un documento raro, nato nell’ombra. Aiuta a sentirsi

meno soli.


Ha avuto modo di ascoltare qualcosa della nuova pubblicazione del disco? Che

effetto le fa?

Le canzoni elettriche le considero un terzo disco. Formano un grande album, indipendente

direi. Non è NEBRASKA, e non è BORN IN THE U.S.A.

Ascoltare la versione primitiva di Born In The U.S.A., solo basso chitarra elettrica e

batteria, poi abortita, porta a chiederci cosa sarebbe stato l’album del 1984 senza

quel pezzo e se la carriera di Springsteen da lì in poi sarebbe stata differente.

Difficile dirlo. La canzone pubblicata ha avuto un grande impatto ed è noto come siano

andate le cose. Sappiamo solo che Bruce nel 1982 aveva voluto deviare verso

NEBRASKA, pretendendo che uscisse prima. Ha scelto la strada più impervia ed è stato

ripagato.



 

INTERVISTA A BENMONT TENCH


LONG AFTER DARK, gioiello (semi) nascosto di Tom Petty & The Heartbreakers, torna sul mercato in versione “potenziata”

 

Nello splendido cofanetto che nel 2020 celebrava, ampliandolo, il bellissimo WILDFLOWERS c’è una canzone che si intitola “È difficile trovare un amico”: durissimo, per gli Heartbreakers di Tom Petty - soprattutto per il chitarrista Mike Campbell e il tastierista Benmont Tench - è stato perderlo l’amico di sempre, in questo caso anche il leader, il fratello di tante imprese artistiche, l’iniziatore di una vicenda musicale che nessuno oggi si stanca di celebrare. 

Petty manca dal 2017 ma una produzione dopo l’altra tiene viva la sua memoria, in maniera vivace, stimolante, mai stancamente speculativa come accade in molti casi.

Benmont Tench, con Petty per cinquant’anni filati, dai Mudcrutch fino a ogni passo degli “spezzacuori”, ha suonato per Dylan, Cash, Orbison, Ringo Starr e Rolling Stones, ma la musica di famiglia è quella che gli sta più a cuore e che racconta sempre con trasporto e accuratezza. 

 

Intervista di Ermanno Labianca

 

Lucca 2012, tornavate in Italia a venticinque anni dai concerti con Bob Dylan. Chi avrebbe potuto dire che sarebbe stata l’ultima volta?

È un gran ricordo, quello di Lucca. Tom ha amato molto quello show. A fine tour, quando tutti sono ripartiti per gli Stati Uniti, io mi sono trattenuto in Italia e sono tornato a Lucca, poi sono stato a Firenze. Dieci anni fa, nel 2014, ero di nuovo nel vostro paese e ho conosciuto la ragazza torinese che avrei sposato e che mi avrebbe dato una figlia.  Non essere più tornato qui con Tom è un dolore, uno dei tanti, che mi porto dentro.

L’affetto sincero traspare dai messaggi che ogni tanto, per un compleanno o per semplice istinto, per necessità lei pubblica sui social. Sono frasi che tradiscono il vuoto che lei sicuramente prova.

Lo riempiamo dedicandoci quasi costantemente al recupero di tante cose belle che abbiamo fatto.

Lei e Mike Campbell state facendo un lavoro egregio, una pubblicazione retrospettiva dopo l’altra, nel tener vive la nostra e la vostra passione per la musica creata come Heartbreakers. Dopo la pubblicazione dei concerti tenuti al Fillmore di San Francisco (del 1997, n.d.ri), tempo due anni e troviamo sul mercato la versione expanded di LONG AFTER DARK.

Eravamo bravi, me lo lasci dire, e Tom scriveva canzoni meravigliose che aprivano mille strade per noi musicisti. Lui e Mike componevano insieme o separati, poi in gruppo succedeva quello che sentite nei dischi. E anche quello che state scoprendo in questi anni. Tutto ciò non può, non deve evaporare. Insieme ad Adria, la figlia di Tom, che attiva sempre tutto, e al co-produttore Ryan Ulyate, ci siamo messi alla ricerca di materiale restato fuori da quell’album del 1982. Non vogliamo pubblicare necessariamente materiale che renda un profitto, vogliamo farvi sentire qualcosa in cui crediamo, che sia molto buono o in qualche caso eccezionale.

È vero. Anche se delle canzoni uscite allora - ora rimasterizzate e unite a molti inediti e live del periodo - Tom ebbe a dire che pur amandole molto non le riteneva evolutive rispetto al suono incontrato nei due dischi precedenti. 

Il disco suonava come volevamo che suonasse allora, rappresentava quel che eravamo: una rock’roll band, nel pieno della maturità, ma che guardava anche oltre, basti pensare al sintetizzatore che rendeva You Got Lucky diversa da cosa fatte prima e compatibile con quanto succedeva in quei giorni. Diciamo che stavamo cambiando con moderazione. Abbiano sempre, tutti, amato quelle canzoni, così graffianti.

Qualcuna più di altre? 

Tutte. E provammo tanta sofferenza nel lasciarne fuori alcune. Keeping Me Alive, ad esempio. Ritenemmo che l’avvio con le chitarre acustiche potesse spezzare quel flusso e ricordare al pubblico alcuni momenti di HARD PROMISES, che conteneva brani più docili. Volevamo sprizzare energia. Non eravamo ancora pronti per esprimerci con la delicatezza e l’introspezione messe poi in WILDFLOWERS. E anche il pop che alcuni di noi hanno suonato in FULL MOON FEVER era ancora lontano dalle nostre corde. Altri brandelli di LONG AFTER DARK dovevano venire fuori, e sono felice che canzoni come Keep A Little Soul, che apriva nel 2018 l’antologia di rarità AN AMERICAN TREASURE, trovino ora un seguito.

Ora sappiamo che Ways To Be Wicked l’avevate registrata nel 1982, prima che venisse donata ai Lone Justice nel 1985. Quella pubblicata adesso è diversa dalla versione comparsa nell’antologia PLAYBACK, che porta come copyright 1986. Era stata riconsiderata per un disco successivo all’esordio della band di Maria McKee?

A dire il vero, la canzone l’avevamo registrata una prima volta già negli anni Settanta, per DAMN THE TORPEDOES e ce l’eravamo tirata dietro fino alle session di LONG AFTER DARK. Credo che Tom volesse depositare la nostra dopo averla data a Maria. Quella che si ascolta su PLAYBACK è la versione di allora, potenziata poi dalla batteria di Steve Ferrone negli anni Novanta. Ha una lunga storia quella canzone. Oggi la ascoltate come l’avevamo pensata per l’album del 1982.

Anche Never Be You era ai margini della vostra produzione ed è finita a Maria McKee che ebbe a registrarla per il film STREETS OF FIRE.

Maria era una nostra amica e fece un bel lavoro, anche grazie all’intervento del nostro produttore Jimmy Iovine. Io ci avevo messo la firma insieme a Tom. Rosanne Cash portò la canzone addirittura al numero uno delle classifiche country poco dopo. In entrambe le versioni c’è un tocco di Heartbreakers. Credo che io e Mike Campbell realizzammo da soli la traccia per Maria, ed io sicuramente suonai a New York per Rosanne.

Oggi nelle classifiche country ci siete voi. Anzi, siete un po’ ovunque con la musica di Tom Petty e questo fa piacere: col cd PETTY COUNTRY: A COUNTRY MUSIC CELEBRATION che vi vede in qualche misura coinvolti, con la serie tv BAD MONKEY piena di cover di vostre canzoni, vecchie e più recenti, e con la riedizione di LONG AFTER DARK di cui stiamo parlando.

We don’t want to fade away (letterale, n.d.i). Faremo sempre di tutto perché la nostra musica e la voce di Tom resistano al tempo che passa.

Vi vedremo mai suonare queste canzoni su un palco con qualche vocalist “scelto”?

Mai dire mai, ma in tutta sincerità non è qualcosa che ora vediamo possibile o vicina. Tom era anche un grande chitarrista e sul palco animava queste canzoni con la forza con cui le aveva scritte. Non sono pronto a vedere qualcuno li, davanti a me, al suo posto.





PERCHÉ "ALLA FINE TUTTI NOI VOLEVAMO SOLO FARE IL DEEJAY"

Lo scrive Sofri, Luca, del quale una ventina di anni fa mi ero sciroppato con estremo piacere le 2556 canzoni che aveva scovato, elencato e commentato nel suo primo “Playlist”.
In qualche modo, adesso che le playlist e le app hanno preso il sopravvento, tutti facciamo i deejay. Solo alcuni scrivono, da deejay. Sofri lo fa benissimo. Con profondità e leggerezza, perché in fondo “it’s only rock’n’roll” o soltanto, come dissero Jannacci e Bennato, “canzonette”.
Lui non è un mio amico, perciò scrivo disinteressatamente. Forse un secolo fa gli combinai un incontro fugace con Morgan al tavolo di un ristorante. Forse lo ricorda, forse no. Del resto era fugace.
Quel che ricordo io è che Sofri era accanto a me, a Milano, sulla balconata dell'Alcatraz, alcune settimane fa.
Pensai: starà facendo ancora raccolta di canzoni? Sotto di noi i Counting Crows, che ne hanno azzeccate parecchie negli ultimi trent'anni e più, anche se la critica (soprattutto quella americana - fuoco amico) è un po’ così.
Ora mi arriva questo “Playlist 2025”, che di canzoni ne riporta 3485. Quelle di allora più altre 959, per la precisione.
Cosi, senza scartare quelle già lette, ché sarebbe da pazzi, sono ripartito da zero. sempre con piacere.
Con piacere. Perché trovare qualcuno che sente come te, pondera, riflette, rimugina, si intestardisce come te su quelle cosette che durano due, tre, quattro minuti e che talvolta cambiano la vita, ti regala un senso di compagnia. Dicono che a fare tutti insieme quel viaggio tra ricordi, potenziometri, libretti illeggibili, vinili ondulati, saltelli e malinconie varie sia parecchio più bello.
Tutto il bene possibile l'ho lasciato intuire, andate e comprate il libro senza indugi, perché è tutto sentito, ponderato e rimuginato con testardaggine, come allora, solo che le canzoni sono aumentate e, come scrive l'autore nelle 21 pagine introduttive (ce ne sono altre 663 di appunti saporiti sulle canzoni scelte e c'è il generoso indice casomai voleste cercarne una a lettura finita, o a metà, o subito), ci sono state rimozioni e correzioni, perché anche delle canzoni ci si può stancare, anche le canzoni invecchiano, e non sempre bene.
Quello che segue trascuratelo se volete, perché si tratta di un noioso elenco di curiosità più rivolte al sapiente autore che a voi che leggerete. Non mi sogno di muovere critiche, sono solo le osservazioni di uno che gradirebbe leggerle se avesse analizzato 3485 canzoni e in qualcuna, solo qualcuna, si fosse distratto.
Tra un'osservazione e l'altra si nasconde l'elogio.
Caro Luca Sofri,
ci vuole un bel coraggio a piazzare sei canzoni degli A-ha tenendo fuori “Take on me”, l’unica universalmente conosciuta. Ma capisco sia voluto, anche perché accade per altri nomi.
Adele, ad esempio: sei canzoni e niente “Hello”? E "Rolling in the deep"?
Tranquillo, ti scrive uno che ha pubblicato un libro sulla canzone d'autore americana. Circa 200 nomi citati, da Adams, Ryan a Zevon, Warren, e ancora mi scrivono, vent'anni dopo, minacciosi, "e Elliott Smith?".
Viva la soggettività.
È simpatica la ricerca delle tante canzoni di De Gregori che prevedono il passaggio di qualcosa: del tempo, del "tram di mezzanotte", delle donne che "vanno e vengono nel porto di Buenos Aires" ecc. Ma dov’è “Cose”? (“Come io e te che stiamo a guardare / Tutte queste cose, passare”).
Hai fatto bene a definire i Blondie, mirabilmente descritti in sole sette righe e mezza, una band proficuamente curiosa, e benissimo a non commentare “Maria”, la loro peggiore pop song.
Oltre ai Blue Nile e a Carosone hanno avuto a che fare con Toledo, la città, anche Costello e Bacharach. A proposito, ma Burt Bacharach?
Mettere “The Road” in relazione con Jackson Browne (che ne fece una bellissima versione, certamente “la” versione) senza dire che non l’ha composta lui ma Danny O’Keefe è strano assai.
Evviva i guilty pleasures di cui molti si vergognano. Thumb up per le ballatone dei Chicago (quelle tra il 1976 e il 1982) e quasi tutto Baglioni. Quando ci vuole ci vuole.
Evviva le canzoni dove si parla di Bologna (Guccini) e del Bologna (Carboni, Cremonini) o in cui, fatto più raro, un bolognese (Dalla) si lascia sfuggire una frase su Milano. Evviva le nostre città cantate, quando le cantano come si deve.
Yvonne Elliman il suo gran momento di celebrità prima di cantare con Clapton “Let it grow” (1974) lo aveva già avuto, essendo stata la Maria Maddalena di "Jesus Christ Superstar" (1973). La botta di "Saturday Night Fever" (1977) fu solo un ritocco alla sua visibilità.
E va bene che quando si parla di canzoni diventa tutto soggettivo, ma per Lou Reed tre dal discreto "Ecstasy” e nessuna dallo spettacolare "New York"? Nemmeno una "Dirty Blvd." per sbaglio?
Ti aspetterò tra vent'anni con Playlist #3. Per verificare se saremo riusciti a trovare altre 1000 canzoni degne di nota. Io qualche dubbio lo nutro.
E se ho scritto qualcosa di contestabile, ci si vede presto in balconata.



È NATALE, TEMPO DI CANZONI… A TEMA.

Alcuni miei consigli per avvicinarvi in modo ragionato alle Christmas Songs, colte in quel terreno che offre prevalentemente roots punk folk e rock’n’roll.

Elenco solo alcune delle mie preferite, desunte da miei album che potrebbero non essere più in circolazione. Non ho verificato, potreste però trovarne alcune su Apple Music, Spotify o Tidal e farvi una playlist.
Escono un po’ dal seminato, eludendo quel che potete ascoltare in diffusione, e a ripetizione, nei centri commerciali.
Enjoy it!


Come prima cosa preparate una cartolina di auguri per la grande Annie Lennox e mandate un pensiero a tre prodi della nostra musica che non ci sono più: Jimmy Buffet, J.D.Souther e Shane McGowan. Tutti nati il 25 dicembre. La prima, nella fase Eurythmics, aveva cantato, meravigliosamente sorretta dall’armonica di Stevie Wonder, There must be an angel (Playing with my heart), immaginandosi immersa in un’orchestra di angeli. “Nessuno sulla terra può cantare così”, ripeteva lei, in quella che era una canzone ascrivibile al clima natalizio senza essere dichiaratamente una carola. Due anni dopo, nel 1987, chiamata a raccolta dagli organizzatori per il primo volume di quella che si sarebbe rivelata una gran bella serie discografica, denominata A Very Special Christmas (incassi in favore della ricerca sul ritardo mentale, grafica di Keith Haring), la Lennox incise con il suo sodale Dave Stewart una bella versione di Winter Wonderland del 1934, una delle 25 canzoni natalizie più eseguite del secolo scorso. In quel disco c’erano anche Bob Seger (Little Drummer Boy), John Cougar Mellencamp (I Saw Mommy Kissing Santa Claus) e Bruce Springsteen (Merry Christmas Baby), e forse bastano questi tre nomi a farvi correre.
L’indimenticato leader dei Pogues Shane McGowan pur non avendo mai inciso un Christmas Album è una voce natalizia ricorrente perché la sua atipica, sbilenca, amatissima canzone di Natale è Fairytale of New York, dialogo surreale tra due ubriachi, incastonato in un brano la cui storia (cercatevela) è un romanzo. Lui e lei (voce femminile Kirsty MacColl) litigano aspramente per strada. Nel video un poliziotto (il cameo è di Matt Dillon) incastra McGowan nel Lower East Side, un’orchestra di grancasse e cornamuse suona davanti all’arco di Washington Square, ma quando lei si avvicina al pianoforte di lui è magia. Siamo dalle parti del romanticismo ad alto tasso alcolico di Tom Waits. Meraviglia.
Se poi intendete restare dalle parti dell’Irish Sound in salsa natalizia il vostro disco è The Bells Of Dublin dei Chieftains, dove il gruppo canta con Elvis Costello (un altro noir, intitolato St.Stephen’s Day Murders), Jackson Browne (The Rebel Jesus, una delicata anti-christmas song che accusa i fedeli di impegnarsi in preghiere spesso ipocrite) e Rickie Lee Jones (la classicissima O Holy Night, insieme a Suzie Katayama).
Aspri nei suoni ma amabili per le intenzioni furono i Ramones nel 1989 quando registrarono Merry Christmas (I Don’t Wanna Fight Tonight), un numero punk composto da Joey Ramone che intendeva regalare un po’ di distensione in un momento di conflitti interni alla band.
Se queste frequenze fanno per voi, se i quattro sempre fasciati di pelle vi fanno suonare qualche corda, gettatevi su Punk Goes Christmas (2013), doppia compilation della Fearless in cui i Man Overboard cantano Father Christmas dei Kinks e gli Yellowcard, altro Punk USA ma da Jacksonville, strapazzano un po’ Christmas Lights dei Coldplay. Se gradite i Green Day questo pezzo vi conquisterà. È, quello dei Ramones, degli Yellowcard ma anche quello dei Coldplay, un rock che attraverso le canzoni natalizie offre un segno di pace.
Come fece anche Nick Lowe nel 1974 con i suoi Brinsley Schwarz (What’s So Funny ‘Bout) Peace, Love And Understanding. Non proprio natalizia come carta d’identità (ma influenzata, a detta dello stesso ex Rockpile, da Jesus Was A Cross Maker della cantautrice Judee Sill), la canzone, dal 1979 quando Elvis Costello la inserì nel suo album Armed Forced prodotto proprio da Lowe, è entrata nelle scalette di molti artisti ed è stata suonata in occasione di concerti e benefit natalizi.
“The Christmas Extravaganza” erano nominate le serate a tema organizzate dall’ex Stray Cats Brian Setzer che con la sua combriccola swing, la Brian Setzer Orchestra, tanti leggii, tanti fiati, tanto rock’n’roll, si divertiva a riproporre tutto lo scibile natalizio sempre accompagnato dalla sua prodigiosa chitarra Gretsch. Almeno tre i dischi – Boogie Woogie Christmas (2002), Dig That Crazy Christmas (2005) e Rockin’ Rudolph (2015) – che non possono mancare nei vostri scaffali se amate il rockabilly che lì esplode sterzando verso le tonalità del country. Nell’orchestra ha fatto anche capolino il pianista Matt Rollings, un vero maestro quando si tratta di incrociare le carriere di artisti di quell’area li.
Di nomi del country, o songwriter e assimilabili al genere potrei qui consigliarvi un’infinità di dischi. Ne hanno pubblicati parecchi, e che vi piaccia o meno la scrittura delle canzoni natalizie sono bellissimi.
Parto a raffica per concentrarmi poi su un solo titolo: fidatevi di John Denver, Dan Fogelberg, Shawn Colvin, Jesse Colin Young, Shelby Lynne, Kenny Loggins, Dwight Yoakam e Chris Isaak, ma la palma del miglior album “natalizio” di un cantautore va A John Prine Christmas (Oh Boy, 1993). Perché è conciso (8 tracce), a fuoco, originale. Prine pesca un titolo tradizionalmente preda un po’ di tutti, I Saw Mommy Kissing Santa Claus del 1954, ma gli affianca canzoni adatte, grazie a un egregio lavoro di compilazione. Ecco brani autografi come All The Best, in versione live, che è un augurio bellissimo, If You Were The Woman And I Was The Man, anch’esso dal vivo con i Cowboy Junkies, e il bellissimo Christmas In Prison così come venne trasmesso, in versione acustica, da una stazione radio nel Tennessee.
Steve Earle non ha all’attivo nulla di prettamente natalizio ma con lo stesso gusto un po’ amaro e grossomodo lo stesso sound di Prine confezionò nel 2004 un autentico capolavoro: Christmas In Washington, che oltre a lanciare strali verso i repubblicani per la loro politica estera durante la guerra in Iraq (“Non nevica più a Natale a Washington, il Presidente siede nella Casa Bianca senza sapere cosa fare”) rifletteva con amarezza quel senso di paura che pervadeva il paese (“Ti prego torna da noi Woody Guthrie, asciugati gli occhi dal Paradiso dove ti trovi e risorgi”).
Anche l’America delle band ha prodotto album natalizi significativi.
Spaziando nel tempo e negli stili, citerei il Christmas Album dei Beach Boys (1964), Have Yourself A Tractor Christmas (The Tractors, la band di Steve Ripley, anno 1995), il ruvido Christmas Time Again dei Lynyrd Skynyrd (2000) e Llego Navidad dei Los Lobos (2019). I Lupi si presero la briga di raccogliere e valutare circa 150 canzoni della tradizione latina per affiancarne undici – tra cumbia, ranchera, son jarocho e tex-mex - e comporre la loro Christmas And You.
Vedete? Ce n’è per tutti i gusti. O quasi.